Afghanistan: inferno di ghiaccio e fango - CARITAS TARVISINA

Afghanistan: inferno di ghiaccio e fango

Dinanzi a queste vite ferite, spero che la nostra indignazione non sia mai abbastanza”

In questi giorni mi sto chiedendo quanto tempo andremo avanti barricandoci dietro al nocivo muro della nostra indifferenza. Dinanzi all’umanità che soffre, alle grida che si levano dai molti inferni che inceneriscono speranza e dignità, non possiamo rimanere in silenzio, non possiamo girarci dall’altra parte. Oggi, vorrei che trovassimo il coraggio per aprire il nostro cuore e il nostro sguardo verso l’inferno dell’Afghanistan. Credo che le mie parole non possano essere efficaci quanto le testimonianze raccolte dalla corrispondente di guerra Barbara Schiavulli. Mi auguro che queste parole ci scomodino, ci feriscano, squarcino quella crosta di egoismo ed individualismo che paralizza la dimensione della fraternità. Ascoltiamo.

«Ho venduto mia figlia perché non avevo più niente. Perché ho altri figli e hanno tutti fame». Ma non hai paura che le succeda qualcosa? «Che cosa può succedere peggio di questo?», dice Fatima che non sa quanti anni ha, allungando una mano per mostrare il luogo dove vive: un ammasso di casupole con mura di fango, tetto di fango, pavimento di fango e ancora fango fresco tutto intorno, mischiato a neve in una miscela che fa sembrare ogni centimetro dei loro sentieri sabbie mobili.

Ha tre figli e Fardusi, di due, è la prescelta. Per duemila euro, che verranno elargiti a rate, è stata data a un parente alla lontana di Kandahar, roccaforte dei talebani, che la farà sposare al figlio, anche lui ancora piccolo. Quando avrà dieci anni la verranno a prendere e verrà trasferita nell’altra famiglia, ma per ora con il suo buffo giacchetto a pois rossi e gli stivali ai piedi vive nella giungla di un campo sfollati, inconsapevole del suo destino. Il campo ospita circa duemila famiglie, il che significa che ci sono almeno ottomila bambini che scorrazzano a piedi nudi tra la neve. Una mamma tiene in braccio la figlia con le gambe nude mentre lei trema vistosamente. Splende il sole di Kabul, ma la temperatura è scesa sotto -10 in quell’inferno di fango e ghiaccio che non lascia speranza a nessuno.

Gli ultimi dell’Afghanistan raccolgono la plastica, portano la carriola al mercato, se sono fortunati guadagnano qualche centesimo al giorno, se sono donne, invece, sono inchiodate in un’esistenza che, ora più che mai dopo il ritorno dei talebani, non lascia loro scampo alcuno. Senza possibilità di studiare, di lavorare, di emanciparsi, il destino delle donne, dalle più povere alle più ricche, è segnato dall’ombra dell’uomo che le possiede. Fin da bambine. Si son dovute perfino pagare quelle grotte in cui vivono senza stufe, senza bagni eppure così dignitose. Il fango è fuori, dentro i tappeti sono puliti, i panni sono stesi al vento gelido che li fa congelare.

«Ha ricevuto il pacco del WFP (World Food Programme): farina, olio, riso, fagioli, ma li ha venduti per comprare le medicine». Un girone dell’inferno, è il campo di Bagrami nella periferia di Kabul. Dove le mamme ti offrono le loro bambine e gli uomini ti guardano come se ti attraversassero. Non c’è scuola, non c’è futuro. Non sanno neanche dirti se hanno delle speranze. La speranza è un’altra di tutte quelle cose che non possono permettersi. Anime abbandonate, che se anche ogni tanto vengono assistite, non hanno alcuna possibilità di uscire dal giro vizioso della povertà. Il loro crimine è essere in un paese martoriato dagli interessi internazionali per poi essere abbandonato, salvo veder poi tornare gli stessi, ancora dicendo di volerli aiutare. Ma davvero potranno mai uscire dal fango dove sono immersi fino al collo? Intrappolati dalle circostanze, dall’ignoranza e dalle tradizioni, stritolati da regole che li aiutano ad andare avanti, ma non oltre. Dove mangiare è più importante che pensare. Dove sposarsi è più importante che migliorarsi, dove l’ignoranza dilaga come le malattie che girano per il campo. Diarrea, gastriti, depressione, reni, disabilità fisiche e mentali, malnutrizione acuta sia delle madri che dei figli. Quei figli che sono il loro bene più prezioso e, a volte, la possibilità, con i loro corpi da marito, di sfamare il resto della famiglia.

In un altro campo ci sono ancora casupole di fango, qualcuna distrutta dal peso della neve, ma il posto ospita solo cinquanta famiglie, circa trecentocinquanta persone, e appartengono tutti alla comunità Giuki. Sono considerati nomadi, ma diversamente da altri che magari si spostano per la transumanza o perché non hanno più un posto dove andare, loro non hanno mai avuto niente e non sono nessuno. Per lo Stato non esistono, non hanno documenti, non vengono registrati, stanno sempre insieme e si aiutano a vicenda, grandi e piccoli, donne e uomini. Il capo di questo girone dice che hanno bisogno di tutto e, mentre i bambini osservano da lontano per poi prendere confidenza, arriva una nota attivista afghana. Laila Hadari è stata una sposa bambina in Pakistan dove i suoi genitori erano profughi, e dopo essere riuscita a divorziare e aver perso i tre bambini che ha tenuto il marito, ancora ragazzina è tornata a Kabul, ha trovato il fratello che si drogava e viveva sotto un ponte, ha realizzato il “mother camp”, un centro di disintossicazione e poi un ristorante che l’aiutava a coprire le spese del campo.

Con i talebani tutto finito. Niente campo, niente ristorante, ma a lei la voglia di fare non gliela possono togliere e già sta pensando a come raggirare le regole. Piccola e agguerrita. Tosta come sanno esserlo solo le donne che hanno combattuto tutta la vita contro gli uomini, la società e anche la guerra. «Sono rimasta. E non me ne andrò anche se è pericoloso. Questo è il mio paese e ho diritto di stare qua». Scarponcini e pantaloni (che i talebani detestano), ha portato un camion di carbone, due sacchi da trenta chili per tutti. Il mondo l’aiuta a trovare i soldi e lei li usa per aiutare la gente. Ma non è mai abbastanza.

Dinanzi a queste vite ferite, spero che la nostra indignazione non sia mai abbastanza e che la nostra voglia di lottare per salvaguardare la dignità di ogni uomo, i nostri sogni di un mondo migliore non si infrangano sugli scogli delle nostre mediocrità e delle nostre buone intenzioni che non si sono concretizzate in scelte. Lasciamoci ferire per essere rigenerati dalla VITA.

15 febbraio 2022

NB: dalla fonte originale della testimonianza “I fantasmi di Kabul” è possibile vedere alcune foto.


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