Dentro una notte oscura - CARITAS TARVISINA

Dentro una notte oscura

“Questo non è il momento di ricercare colpe e colpevoli, è il tempo in cui dobbiamo ritrovare il volto dell’umano

 

Nel cuore della notte, quando il buio si fa tenebra e gela il cuore, è difficile alzare lo sguardo per scrutare all’orizzonte la stella della speranza. I drammi che stanno lacerando l’umanità salgono a turno alla ribalta dell’attenzione mondiale, con il rischio di farci sprofondare nella notte e di dimenticarci che dentro a quei drammi ci sono le storie, i volti e la carne di tanti nostri fratelli.

È per me inaccettabile che tutto si possa ricondurre al fatto che è solo fortuna o sfortuna essere nati da una parte o l’altra del mondo. Dio ci ha affidato la terra, il dono della vita perché con responsabilità ed impegno potessimo offrire a ciascuno la bellezza di una vita dignitosa, un raggio di luce che riscaldasse il cuore e alimentasse la speranza. Il Male ci sta mettendo a dura prova, continua a seminare inimicizia tra gli uomini. Sovente si cade nella dinamica perversa di cercare colpevoli, piuttosto che di trovare strade per vedere insieme come assumersi la responsabilità di un cambiamento che deve partire da noi e per il quale non c’è più tempo, non si può più aspettare. Il prezzo che stiamo pagando è troppo alto: la pandemia, il terremoto ad Haiti, il dramma del popolo afghano purtroppo sono solo le tracce oscure che più abbiamo presenti in queste ore di buio e tenebra. È da qui, però, che dobbiamo ripartire, è dentro questa oscura notte che siamo chiamati, insieme, a cercare il grembo che racchiude un nuovo raggio di luce e di vita. Non è facile, ma è compito nostro.

In questi ultimi giorni il dramma del popolo afghano mi ha travolto nella sua spietata drammaticità e nell’esperienza di un senso di impotenza che toglie il respiro e anche il sonno. Molti giovani afghani, che hanno condiviso un tratto del loro percorso nelle strutture della Caritas, e anche loro amici mi hanno lanciato il loro grido disperato di aiuto. Il mio telefono, come quello di tantissime altre persone, era letteralmente bollente.  Poche parole, affogate nelle lacrime e stritolate da un dolore indicibile, in un inglese storpiato, ma mai, mai così chiaro da arrivare a trafiggere animo e cuore: Sir, please help me, help me. I have my family, my little brothers trapped in Afghanistan. The situation there is terrible. I haven’t slept for days. Please, Lord, help me, please help me. Do not forget me. Un grido che non mi ha lasciato tranquillo. Ho preso contatto con personalità impegnate nel campo diplomatico e politico. Ho trovato delle persone che si sono spese tutte, senza tregua per aiutare questi nostri fratelli. Non è assolutamente vero che è tutto marcio, tutto da buttare. Nel cuore della notte i telefoni erano sempre attivi, nella speranza di poter offrire un varco di speranza. Giovedì 26 agosto, quando il ponte aereo italiano si stava ormai per concludere, al mattino mi era arrivata la notizia che alcune di queste famiglie erano a pochi metri dall’ingresso in aeroporto, dalla possibilità di avercela fatta. Tanta fatica, tanti sforzi, però almeno qualcuno avrebbe avuto questa opportunità. Poi poco prima delle 17 a Kabul (19.30 in Italia) l’esplosione, il sangue, la morte, il silenzio… impotenza, impotenza! I sogni spezzati, i telefoni impazziti, parole di speranza soffocate in gola. Chi stava per imbarcarsi, è rimasto ferito. Ogni via di fuga tramontata. Terrore infinito, disperazione assoluta. Però, è proprio qui che siamo chiamati a stare, a non girarci dall’altra parte.  Sto vivendo, come non mai, un senso di impotenza dilaniante, ma questi fratelli hanno bisogno di noi, hanno bisogno di sentire un cuore che ascolta e condivide. Non so se ci sono strade, nell’immediato, che si apriranno per ridare fiducia e speranza a queste famiglie afghane. Certo è che insieme dobbiamo abitare quest’oggi della storia, assumendoci le nostre responsabilità. Questo non è il momento di ricercare colpe e colpevoli, è il tempo in cui dobbiamo ritrovare il volto dell’umano, tenendo presente, come ricorda papa Francesco, che siamo chiamati a percorrere la strada della fraternità e del prenderci cura. È importante, per quanto piccola possa essere la parte, che ognuno ci metta del suo e non solo in quest’ora di forti emozioni.

Come ultima riflessione condivido alcune considerazioni di Francesco Cancellato, direttore responsabile del giornale online Fanpage. In questi giorni, sui media scorrevano titoli come “La paura dell’Europa. Si rischia un’ondata di 250mila profughi” (1 ogni 2mila). Paura e rischio. Ci siamo lasciati scivolare la narrazione di quanto sta accadendo in Afghanistan, dove le ragazze nubili si sono barricate in casa per non essere sposate a un guerriero talebano, dove le madri hanno abbondonato i figli neonati, gettandoli oltre il filo spinato tra le braccia di un soldato qualunque, dove dei ragazzi si sono seduti sul carrello di un aereo come se fosse il predellino di un autobus e sono precipitati al suolo, dove i “nuovi padroni” girano casa per casa a cercare gli “infedeli”. Nei diversi dibattiti si dice che ci toccherà fronteggiare un’emergenza chiamata immigrazione “clandestina”, come se ci fosse qualcosa di “clandestino” nel richiedere asilo politico. Si offre la disponibilità ad accogliere moglie e figli, ma non i padri e i fratelli, perché i maschi adulti che vengono da quelle parti là – si sa! – sono terroristi in potenza.

Viene da sorridere amaramente, di fronte a tutte le volte che in questi vent’anni abbiamo blaterato di civiltà superiore, di diritti umani universali, di spirito europeo, di fratellanza tra i popoli, mentre la realtà ci mostra impietosamente che l’idea che abbiamo di noi stessi, noi europei, è distante anni luce da ciò che siamo: un continente di vecchi impauriti dal prossimo, che pensa solo al proprio benessere, che si accaparra terze e quarte dosi di vaccino per poter uscire a bere lo spritz senza mascherina mentre a mezzo mondo manca ancora la prima, che di fronte a una catastrofe umanitaria tra le tante che finge di non vedere pensa solo a quel scomodo afghano su duemila. Volevamo esportare la democrazia. Non siamo nemmeno in grado di offrire un briciolo di umanità. Questa è la vera lezione che stiamo imparando dall’Afghanistan. Teniamola a mente, al prossimo conato di retorica.

 31 agosto 2021

 


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