Il sogno di Jitesh - CARITAS TARVISINA

Il sogno di Jitesh

Jitesh non sa più dove guardare. Sua moglie Meena lo scruta sempre, di sottecchi, mentre si solleva il lembo colorato della sari sopra gli occhi.

E Jitesh sente sulle spalle il peso di quegli sguardi, e di quelli di Manoj il loro figlio di quattro anni e di Babu, il papà della moglie che abita con loro nella casetta di mattoni, orgoglio costuito da braccia sode di fatica. Mattoni, quelli della casa, guadagnati con mesi di vita nei sobborghi di Calcutta, laddove sferraglia il treno a tutte le ore del giorno della notte, laddove il ponte di Howrah, è il massimo del panorama auspicabile. Il resto è fatto di camminate sui binari per raggiungere il punto di raccolta dove il mediatore procura operai a giornata, di sudore e poco cibo se si ottiene una giornata di lavoro o di cannabis di bassissimo livello se si gira a vuoto.

E poi di nuovo nelle baracche coperte di teli un tempo gialli, liquami di fogna davanti all’uscio, notti caldissime da condividere con compagni di sventura non scelti e l’attesa di poter finalmente salire su uno di quei treni rumorosi verso il Bihar, per tornare al villaggio.

Anche tutto questo ora per Jitesh è un sogno, darebbe qualsiasi cosa per poter essere nei liquami della baraccopoli alla ricerca di un impiego. Ma adesso tutto si è congelato nella torrida estate indiana dell’est. Dopo la fuga da Calcutta, quando il Governo ha mandato via tutti con ordinanze legale e bastonate impietose, dopo che sono finiti i pochissimi risparmi accumulati, dopo che l’idea che “andrà tutto bene” si è frantumata al limitar degli occhi piangenti per la fame di moglie, figlio e suocero, tutto è attesa, disperazione e un ruminar continuo da togliere il fiato.

Il Bihar, con i suoi 124 milioni di abitanti, è uno degli Stati più poveri della Confederazione indiana e sopravvive a stenti sulle rimesse che i lavoratori migranti interni, ovvero impiegati in altri stati dell’India, inviano mensilmente grazie a lavori non qualificati, sottopagati e a condizioni di vita talvolta al limite della schiavitù.

La pandemia da Covid-19 ha drammaticamente messo in luce la vulnerabilità della popolazione del Bihar, ma più in generale delle centinaia di milioni di lavoratori – uomini, donne e bambini – che, pur essendo una forza economica molto importante, non vedono il riconoscimento di alcun diritto e vivono costantemente nella precarietà. Ad essi si aggiungono altri svariati milioni di cittadini che da essi dipendono direttamente.

La pandemia ha portato a quella che già viene chiamata la “la più grande migrazione di ritorno di tutti i tempi” e questa genera a sua volta un’inversione a U per tantissimi negli stili di vita, nella gestione delle relazioni familiari e nelle prospettive a lungo termine.

Cosi giovani che si erano spostati verso le metropoli indiane ed erano impegnati in mestieri legati alle tecnologie e alle comunicazioni, si trovano ora a tentare la strada del coltivatore diretto, dell’allevatore di capre o del piscicoltore.

La saggezza degli anziani, la necessità bruciante e l’intervento delle organizzazioni umanitarie aiutano questa transizione che da temporanea, come poteva apparire durante le primissime settimane di emergenza, sta diventando sempre più stabile e permanente.

Il ri-appropriarsi di una dimensione domestica o di villaggio per la produzione del fabbisogno è, adesso e in alcuni casi, la via ideale per poter vivere dignitosamente. Ma non è la panacea per un sub-continente immenso e al momento quasi del tutto paralizzato in sé stesso. E chi è senza risorse strutturali di base, anche minime, resta ancora una volta fuori dai giochi.

La casa di mattoni di Jitesh è circondata da campi che però non gli appartengono, non ci sono animali da pascolare e da cui ricavare il latte e l’unico modo che Jitesh ha trovato per portare a casa qualche rupia è stato quello di vendere il liquore artigianale prodotto dal vicino. È un mestiere pericoloso perché nello stato del Bihar la vendita di alcolici è illegale in generale e ancor di più se si tratta di prodotti casalinghi e potenzialmente pericolosi.

Ma si sa che, anche da queste parti, è bevendo che si addormenta la fame.

E da qualche mese nel villaggio di Jitesh e Meena molti hanno fame, una fame con poche speranze di essere placata in tempi brevi e una disperazione che cresce.

Sono in continuo aumento le notizie online e su carta stampata di suicidi legati alla pandemia. Ancora non ci sono studi ma alcune recentissime ricerche suggeriscono che solo a causa della malattia, ovvero per l’ansia che la stessa genera, per la paura del contagio e per l’insicurezza derivante dalla situazione, più persone si sono tolte la vita. Ad esse vanno aggiunte quelle che lo fanno per la povertà, la fame, l’assenza di lavoro e prospettiva che la situazione pandemica ha portato negli ultimi mesi.

In un paese come l’India dove, secondo fonti FAO, il 40% del cibo prodotto viene sprecato per mancanza di catene di distribuzione l’impatto del Covid non solo sulla produzione ma anche sulla distribuzione – già iniqua di per sé – di cibo e scorte alimentari, è stato devastante.

L’India puntava ad esportare entro il 2025 più di cento miliardi di dollari in prodotti agricoli per riempire il gap di mercato in America Latina e in Oceania e prevedeva un raccolto record nel 2020 di 295.7 milioni di metri cubi di prodotti. Da Marzo 2020 con il lunghissimo, e poco efficace, lockdown imposto all’intera nazione la situazione è drasticamente cambiata. Quantità impressionanti di raccolto, materie prime alimentari e cibo già semi-lavorato sono andate perdute, sono marcite nei campi, sulle colline o nei magazzini industriali. Nel contempo interi villaggi, che seppur non ricchi potevano comunque vantare una certa tranquillità alimentare, sono ridotti allo stremo, con la distribuzione dei cibi a singhiozzo, la disponibilità di derrate ridotta e l’accesso alle stesse non sempre garantito.

L’India conosce da tempi immemori la fame: solo nel 2019 il Paese si trovava al 102esimo posto su 117 nazioni in relazione all’Indice Globale della Fame (Global Hunger Index), ora con l’impatto del virus e del blocco di produttività, trasporto, lavorazione e distribuzione la situazione è destinata a peggiorare.

Di contro in alcuni stati, tra cui l’Uttar Pradesh e il Bihar, ovvero due dei più poveri stati dell’Unione, proprio a causa del rientro dei migranti lavoratori, la domanda di cibo è aumentata e con essa sono saliti i prezzi con rincari dal 9 all’11%. Dopo le prime settimane in cui in qualche modo la popolazione è riuscita a gestire la situazione, il divario tra potere di acquisto e costo dei beni di prima necessità si è fatto sempre più ampio, accrescendo drasticamente la malnutrizione.  

Il Governo ha risposto durante la chiusura con più di 38,000 campi profughi che provvedevano almeno due pasti al giorno per circa 16 milioni di persone.

Ma la scelta durissima tra lasciare i campi di accoglienza, in qualche modo protetti, per avventurarsi nelle campagne alla ricerca delle proprie risorse alimentari ma con il rischio alto di esporsi al virus ha interessato milioni di individui.

Mentre Jitesh fugge lo sguardo della moglie perché non sa cosa rispondere alle silenti richieste di cibo, mentre sa che nei suoi occhi ci sono da qualche settimana anche gli occhi di una nuova vita che in lei cresce e alla quale cerca di dare risposte vendendo stordimento alcolico ad altri disperati, l’India ha bisogno sempre di più di interventi strutturali per risolvere le sue diseguaglianze storiche, per ri-avvicinare in termini di giustizia chi è stato mantenuto socialmente distante da sempre.

Al momento mancano cibo, lavoro, reti di distribuzione e capacità di mercato ma sul lungo periodo servono, come da secoli a questa parte, equa distribuzione, inclusione delle fasce più deboli e delle alterità – rispetto al modello dominante – etniche, religiose, tribali, linguistiche, sociali.

Alle centinaia di milioni di Jitesh e Meena che vivono in India questa pandemia dimostrerà l’assoluta urgenza di giustizia, di lavoro equo ed eticamente gestito, di condivisione delle possibilità che giacciono strette nelle mani di pochi e di dignità.

Ma forse, alla fine di tutto questo, saranno troppo deboli, storditi o affamati per ricordarlo.

Il sogno di Jitesh come quello di altri milioni di indiani: un impiego per sfamare la sua famiglia.

di Beppe Pedron, Caritas Italiana.


Fonti

  • Suicides related to the COVID-19 outbreak in India: A pilot study of media reports. Ravi Philip Rajkumar;
  • Asian J Psychiatr. 2020 Oct; 53: 102196. Published online 2020 Jun 5. doi: 10.1016/j.ajp.2020.102196;
  • Mental health in India: Neglected component of wellbeing in COVID-19 eraKapil Goyal 1, Sunita Sheoran 2, Poonam Chauhan 3, Komal Chhikara 4, Parakriti Gupta 5, Mini P Singh 6;
  • Asian J Psychiatr. 2020 Jul 29;54:102341. doi: 10.1016/j.ajp.2020.10234.

2019 Global Hunger index by severity
How coronavirus is affecting underprivileged children in India
India’s poorest ‘fear hunger may kill us before coronavirus’

 

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