L’elemosina è ancora carità? - CARITAS TARVISINA

L’elemosina è ancora carità?

Mi sembra importante che dinanzi alle questioni poste circa la modalità di vivere la carità, attraverso la forma dell’elemosina, ci lasciamo illuminare prima di tutto dalla Parola di Dio. Il Signore Gesù ci ricorda prima di tutto che i poveri li avremo sempre con noi, a dire cioè che nel cammino dell’esistenza umana ci saranno sempre, per svariati motivi, delle persone che restano indietro, che non ce la fanno. Nella fraternità che ci unisce loro non le possiamo abbandonare, non le possiamo lasciare sprofondare nell’abisso dell’indifferenza e della marginalità. Sono affidate alla nostra cura, alla nostra custodia che si esprime attraverso la via della condivisione e della solidarietà. Tuttavia questo non può ridursi solo ad una azione caritatevole individuale, ma deve essere espressione di una comunità come ci ricarda Atti 2, 42 -47: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, 47lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati”.  L’elemosina e la carità non possono essere vissute né come delega, né in forma individualistica.

Alcuni semplici considerazioni. La persona che è nel bisogno si trova sempre a dover lottare per sopravvivere, non è serena e tranquilla. Cerca di ottenere il massimo dalle opportunità che incontra. Accanto alla povertà materiale, vive delle difficoltà legate ad umiliazioni profonde, a relazioni ferite, ad una dignità calpestata e talvolta svenduta per pochi denari. Chi agisce in maniera “truffaldina” è forse più “povero” di altri perché non riesce più neanche a riconoscere il gesto gratuito di chi lo sta aiutando. Non c’è povero più grande di chi ha perso la speranza e la fiducia negli altri. Senza annullare la responsabilità personale di chi agisce violando la legalità, dobbiamo prima di tutto chiederci se tutto ciò non sia conseguenza del nostro stile di vita e della debolezza della comunità. Chi sprofonda nelle paludi dell’indifferenza, dello scarto, dell’emarginazione si aggrappa ad ogni espediente. Allora credo sia importante che non ci fermiamo a curare solo il sintomo, ma che ci impegniamo a curare la causa. È necessario che ci prendiamo cura sul serio dei poveri, avendo come obiettivo primario la valorizzazione della loro dignità e il loro cammino, e non quello di metterci in pace la coscienza o quello di spettacolizzare le loro miserie e sofferenze mostrando al mondo quanto siamo bravi e buoni. Elemosina deriva dal greco eleêo che significa aver compassione, cioè condividere lo stesso cammino. È importante che ritroviamo questa verità profonda della relazione con il povero se vogliamo che la nostra elemosina sia espressione della Carità di Cristo e non un atto superficiale.

Il cristiano è chiamato prima di tutto a scoprire nel povero il volto di un fratello da amare. Dinanzi a chi “inquina” con il sotterfugio e la menzogna la propria necessità di aiuto, non possiamo girarci dall’altra parte. Anzi siamo chiamati ad averne ancor più cura, a ristabilire una relazione di fiducia e di rispetto che doni a chi è in difficoltà la possibilità di ritrovare la libertà di essere quello che è. Non si possono chiudere le porte in faccia, ma è importante che sempre più sappiamo accompagnare queste persone come comunità e non come individui. L’emergenza legata ai bisogni primari va risolta nell’immediato e questo preferibilmente offrendo alla persona ciò di cui ha bisogno e non denaro. Le richieste di aiuto e sostegno più impegnative, chiedono proprio nel rispetto della dignità della persona la necessità di costruire una relazione con lei, di comprendere bene quali sono le difficoltà e le risorse cha ha a disposizione, di lavorare in rete con quanti già le sono accanto. Questo attraverso la caritas, ma non solo.

È fondamentale far si che l’elemosina diventi sempre più un gesto caritativo che innesca un processo di rinascita, sempre nel rispetto dei tempi delle persone e mai anteponendo le nostre idee e i nostri progetti a quello che la persona desidera e può realizzare.

Il rischio di incorrere in qualche “imbroglio” ci sarà sempre e nessuno, neanche le caritas, si possono ritenere immuni da questo. È necessario però un cambio di prospettiva. La ricerca di consolidare la distinzione tra “veri poveri” e “falsi poveri” è sterile e non porta da nessuna parte, anzi alimenta la sfiducia e induce ad affinare le strategie del sotterfugio. Si tratta di non lasciare cadere nel vuoto questi episodi e le richieste dei poveri, cogliendo che sono un appello ad una conversione profonda del nostro stile di vita e delle nostre comunità. La lotta alla povertà è strutturale alla vita di una comunità e il bene individuale non può annichilire l’orizzonte del bene comune. Se qualcuno agisce in maniera “truffaldina” è responsabile delle sue azioni e ne deve rendere conto, ma non possiamo non tener presente che molte volte tutto ciò è causato da come è strutturata la nostra società e dalla nostra indifferenza. Cominciamo a liberarci dalla logica di Ponzio Pilato.

Non possiamo più lasciare indietro nessuno, altrimenti l’abisso dell’iniquità e dell’inequità inghiottirà le nostre tiepide elemosine, la lacerazione dell’ingiustizia e della disparità diventerà il triste palcoscenico dove si consuma la tragedia della lotta tra poveri. La comunità deve ritrovare il suo volto solidale, deve passare da interventi immediati di emergenza a processi di condivisione che permettano a tutti di “essere a casa”.

 


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