Lettera aperta a don Canuto Toso e ai cristiani che la pensano come lui - CARITAS TARVISINA

Lettera aperta a don Canuto Toso e ai cristiani che la pensano come lui

don-bruno-baratto_imagelargeRingrazio don Canuto per il suo intervento relativo al tema dei profughi (leggi l’articolo), perché mi dà l’occasione di chiarire qualche dato di fatto e proporre alcune considerazioni che possono aiutarci a vedere il fenomeno in maniera più completa, fin nelle implicazioni con cui il Vangelo di Gesù ci provoca a confrontarci.

Credo che molti cristiani trevigiani, preti compresi, condividano le posizioni espresse da don Canuto, e credo anche di poterne intuire il perché: il volto che la migrazione oggi ci presenta non è lo stesso di vent’anni fa, e non è neppure in continuità con la sua evoluzione, cioè l’aumento delle presenze dovute non solo alla ricerca di lavoro, ma anche ai successivi ricongiungimenti familiari, alla nascita dei bimbi figli di migranti, al loro progressivo inserimento nel tessuto del territorio, al crescere di una immigrazione al femminile, che ha reso possibile il sostegno di tante situazioni familiari difficili per la presenza di anziani e malati cronici di cui non era facile prendersi cura. Oggi la situazione ancora una volta cambia, e in maniera rapida, ancora una volta ci “prende di sorpresa” almeno nell’immaginario diffuso tra la gente. Oggi si tratta di profughi, di una continua pressione di persone che arrivano, attraverso rotte a rischio di morte, per sfuggire a morte più certa nei loro paesi di origine, e che arrivano chiedendo asilo, protezione per sé e per i loro cari. E questo ci spiazza, soprattutto perché giungono in tempi nei quali, a differenza di quanto accadeva fino ad almeno dieci anni fa, non sono più considerati utili braccia da lavoro. Al tempo della grande fuga dall’Albania all’inizio degli anni novanta, nel giro di tre-quattro anni la quasi totalità di coloro che erano arrivati attraversando l’Adriatico sulle tante carrette e gommoni erano stati assorbiti dal mercato del lavoro che aveva fame di braccia, e si erano man mano inseriti nel tessuto sociale del nostro paese. Oggi è diverso, sono disoccupati gli italiani, non ce n’è più per nessuno, son finite le vacche grasse…

E’ quindi comprensibile la sensazione di chi, come don Canuto, si sente spiazzato da un fenomeno che è così mutato, e che si vorrebbe continuare ad interpretare con schemi vecchi, quelli dell’emigrazione italiana all’estero o anche quelli di vent’anni fa da noi. Va notato innanzitutto che il suo ragionamento parte da un dato errato: non è vero che solo il dieci per cento di chi arriva sia “profugo”, cioè sia in fuga da situazioni di grave pericolo ed abbia quindi presumibilmente diritto a forme di protezione internazionale come l’asilo o la protezione umanitaria, garantite dalle leggi internazionali. Le commissioni incaricate di vagliare le domande dei profughi giunti in Italia, nel 2014 hanno riconosciuto al 61% delle persone il diritto ad una protezione, che sia l’asilo (14-17%) o altre forme (protezione sussidiaria o umanitaria 83-86%), in quanto provenienti da situazioni di forte rischio di vita (dati del Ministero degli Interni). La commissione di Gorizia, alla quale sono sottoposte fino al 2014 le domande di chi è ospitato in provincia di Treviso, è in linea con i dati nazionali. D’altronde, basterebbe un’occhiata alle provenienze dei profughi per comprendere da quali situazioni vengano la maggior parte delle persone: per quanto riguarda gli oltre 500 ospitati tra il 2014 e l’inizio del 2015 da Caritas Tarvisina, gli unici per i quali abbiamo a disposizione i dati sulla nazionalità, almeno il 50% provenivano da zone di conflitto interno come Eritrea, Etiopia, Mali, Nigeria, Sudan. Va quindi prima di tutto riconosciuto che per la grande maggioranza di costoro vale quella battuta fatta da uno dei sopravvissuti ai troppi naufragi: “se rimango a casa mia muoio, se parto rischio di morire”.

E il problema, almeno finora, non è quello di un’accoglienza che riguarda, nella nostra provincia, circa un migliaio di persone: se gestita con criteri da tempo proposti da Caritas Tarvisina e da altri attori del privato sociale, l’impatto sul territorio sarebbe molto più ridotto e realmente governabile. Sono altri due i veri nodi del fenomeno rispetto ai quali, nella posizione esposta da don Canuto, non si va fino a dove il Vangelo ci spinge, come cristiani. I due punti in questione sono il problema del poi e quello del prima: una volta che sia stata riconosciuta la possibilità di soggiornare regolarmente in Italia, che fanno queste persone? Come troveranno lavoro e opportunità di futuro? E, all’altro capo, come fare in maniera che si arresti questa continua emorragia di uomini donne bambini che impoveriscono prima di tutto i paesi da cui provengono?

Certo, non possiamo accogliere tutti, certo, non abbiamo posto e risorse per tutti… Ma mi rifiuto di credere che l’unica soluzione che sappiamo immaginare sia decidere come condannare a morte coloro che non accettano di rimanere nei paesi di conflitto, o in zone di disastro ambientale o alimentare. Affrettare i tempi di naufragi e di annegamenti in mare, o rinchiuderli altrove in tendopoli della disperazione lasciando a qualche lotteria o a qualche maggior capacità di corruzione l’uscita verso la salvezza? Perché se questa è l’unica alternativa che sappiamo pensare, allora vuol dire che abbiamo perso, e definitivamente, non solo il Vangelo, ma anche la nostra umanità. Io credo piuttosto che proprio il Vangelo sfidi la nostra intelligenza nel riconoscere, in questo segno dei tempi che viviamo, una provocazione ad un profondo cambiamento. Prima di tutto chiamando per nome, come sta facendo papa Francesco, questa globalizzazione dell’ingiustizia: gli squilibri e i conflitti, le più importanti cause di migrazioni così tragiche, ma anche la crisi di casa nostra, vanno riconosciuti come funzionali ad un sistema che mette al primo posto l’aumento esponenziale dei profitti di pochi, non il bene della gente. Ingigantendo qui da noi le paure, per impedire contatti che potrebbero rimettere in questione il nostro modo di vedere così come va bene a pochi per i loro interessi. Ricordiamo fra l’altro che i bombardamenti sulla Libia, i quali hanno ulteriormente complicato la situazione mediterranea, sono stati avvallati dal nostro governo di allora, anche da chi ora grida all’invasione… forse è il caso di ricordarci che ogni nostra azione comporta effetti di cui rimaniamo responsabili. La realtà che stiamo vivendo provoca prima di tutto noi cristiani, insieme ad altri uomini e donne di buona volontà, ad accorgerci che il sistema in cui viviamo non è più sostenibile, non solo a livello di giustizia, ma anche di costruzione di un minimo di bene comune. E preoccuparsi di questo bene davvero comune è l’unico modo per costruire un mondo più sicuro per tutti, per aprire futuro vivibile ai nostri figli. E’ allora urgente impegnarsi con decisione come Chiesa nel promuovere vie diverse per l’economia e la finanza, per uscire da un sistema che genera morte, senza pretendere di aver soluzioni già pronte ma ricercando insieme con chi da tempo sta studiando strade alternative come la decrescita, l’economia di comunità o del dono. Non basta più l’appello ai “buoni sentimenti” o al “dovere dell’accoglienza”. Diventa anzi controproducente. Di fronte a problematiche tanto complesse è necessario ormai prendere coscienza delle responsabilità a cui la situazione in cui viviamo ci chiama. Come vent’anni fa ci sono stati cristiani e cittadini capaci di inventare creativamente spazi di ospitalità e percorsi di inserimento per chi arrivava in cerca di lavoro, così oggi sono necessarie ancor più risorse di mente di cuore di volontà per trovare vie nuove per salvarci. Loro, che fuggono dalla morte, ma anche noi. Ne va del Vangelo, ma ne va anche della nostra umanità. Preghiamo di volerle e saperle trovare queste risorse, prima di tutto dentro di noi, ma anche in percorsi di ricerca comune con tutti coloro che si assumono questa responsabilità epocale.

Don Bruno Baratto, direttore diocesano Migrantes

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