“Prendersi cura di una persona significa amarla senza condizioni, senza se e senza ma. Non è spreco di energie, ma è un investimento che porterà frutti abbondanti ed inaspettati. . Prendersi cura di una persona significa esserci, stare dentro le fatiche e i dolori con uno sguardo capace di infondere speranza e fiducia“
La scelta preferenziale dei poveri è fatta di atteggiamenti interiori che siamo chiamati a tradurre in scelte concrete. Il prendersi cura di una persona in difficoltà chiede di realizzare delle azioni che sono a suo favore. È necessario sporcarsi le mani, giocarsi fino in fondo senza paura. Il prendersi cura implica una serie di scelte che modificano quella sterile quiete nella quale sovente ci rifugiamo, per non essere disturbati. È bene tenere presente che il povero prima di tutto rompe, rompe i nostri schemi e le nostre zone di protezione. Il povero entra nel profondo del nostro cuore, ci ferisce e ci provoca. Fa sorgere nel nostro cuore una sana inquietudine che ci smuove dalle nostre pigrizie ed esitazioni.
Prendersi cura di una persona significa che la sua vicenda ci sta a cuore e che le sue debolezze e fragilità sono il luogo prezioso dove vivere una relazione libera e liberante. Prendersi cura di una persona significa amarla senza condizioni, senza se e senza ma. Non è spreco di energie, ma è un investimento che porterà frutti abbondanti ed inaspettati. Prendersi cura di una persona significa esserci, stare dentro le fatiche e i dolori con uno sguardo capace di infondere speranza e fiducia. È continuare la missione del Signore che desidera che nulla vada perduto, che è disposto a tutto pur di salvare la vita dell’uomo. La povertà e la sofferenza gelano il cuore e rendono affannoso il respiro. In queste fasi della vita segnate dall’angoscia e dalla tristezza, abbiamo bisogno di sentire una mano amica che ci sorregge, la dolcezza di una carezza che ci asciuga le lacrime, la leggerezza di un sorriso o di una parola che ci rincuora. Il prendersi cura del fratello non è l’azione di un momento, ma è l’atteggiamento interiore di chi vive inserito nella Pasqua di Gesù. È la modalità con cui diamo corpo e forma ad una preghiera antica che unisce il cielo e la terra, l’umano ed il divino: “Cristo non ha mani, ha soltanto le nostre mani per fare il suo lavoro oggi. Cristo non ha piedi ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini sui suoi sentieri. Cristo non ha labbra ha soltanto le nostre labbra per raccontare di sé agli uomini d’oggi. Cristo non ha mezzi ha soltanto il nostro aiuto per condurre gli uomini a sé. Noi siamo l’unica Bibbia che i popoli leggono ancora. Siamo l’ultimo messaggio di Dio scritto in opere e parole”. Una bella icona di questo amore che attraversa il cielo e la terra è il crocifisso di Furelos che ha ispirato quello che è presente nella cappella in Casa della Carità. La caratteristica è quella di avere un braccio appeso alla croce e l’atro proteso verso la terra. È quasi un ponte tra la terra ed il cielo, tra la misericordia di Dio e la miseria dell’uomo. È la Carità che si fa storia, che si fa incontro all’uomo povero e sofferente. Il Cristo infatti è attaccato alla croce con due soli chiodi: uno che fissa la mano sinistra e l’altro i piedi. La Sua mano destra, invece, è libera ed è tesa verso chi gli è di fronte, come se si aspettasse che la prendesse. Sa che chi ha davanti è stanco … vuole dare un po’ di sollievo come una mamma quando dà la mano al suo piccolo per aiutarlo a camminare. Poi, siccome lo si vede appeso in modo che i suoi piedi siano all’altezza degli occhi di chi guarda, sembra quasi invitare chi gli è di fronte ad accettare, nel profondo del proprio cuore, se tendergli o meno la mano.
Il buon samaritano, dopo aver esercitato il primo soccorso, si rende conto che ha bisogno dell’aiuto di altri. Da solo non ce la può fare ed allora coinvolge in questa avventura della carità l’albergatore. Nel prendersi cura delle persone è molto importante che abbiamo consapevolezza dei nostri limiti, per non illudere chi è in difficoltà. È fondamentale discernere fino a dove possiamo arrivare. Questo non significa porre un limite alla carità, ma maturare quell’umiltà che ci porta a riconoscere che abbiamo sempre bisogno degli altri, che i “cinque pani e due pesci” quando vengono condivisi, diventano cibo abbondante che sazia la fame di tutti. Il prendersi cura di chi è in difficoltà non può mai essere qualcosa che viene delegato al singolo o ad un gruppo di persone, ma deve essere sempre espressione di una comunità che nell’ascolto della Parola e nello spezzare insieme il Pane di vita, trova la sorgente di ogni opera di carità. La carità è allora il cuore ed il volto di una comunità che è chiamata a tessere relazioni di fraternità e di sostegno reciproco.
Don Davide Schiavon
29 novembre 2022