Giubileo nella Casa circondariale di Treviso - CARITAS TREVISO

Giubileo nella Casa circondariale di Treviso

“Non perdete la speranza e la fiducia nell’umanità”: l’appello del Vescovo ai detenuti durante il Giubileo nel carcere di Treviso

“Il cielo è lo stesso, di qua e di là di queste mura. Manteniamo la nostra umanità, abbattiamo i muri dell’indifferenza! E voi, fratelli, non perdete la speranza e la fiducia nell’umanità”: è così che il vescovo di Treviso, mons. Michele Tomasi, si è rivolto, domenica pomeriggio, ai partecipanti al Giubileo dei detenuti, nella Casa circondariale cittadina, a Santa Bona. Moltissime persone sono entrate, per partecipare, insieme ai detenuti, a un momento di preghiera, di condivisione e di speranza: diverse famiglie dei detenuti, alcune con figli piccoli, i volontari che partecipano a percorsi e progetti nella Casa circondariale, in particolare “La prima pietra”, e poi volontari del Sicomoro di Varago, operatori dell’Alternativa, il gruppo “Il nodo” di Vittorio Veneto, rappresentanti di organismi diocesani come il Consiglio pastorale diocesano e il Consiglio presbiterale, i giovani delle parrocchie che partecipano al percorso “Parole in libertà”, i cappellani della Casa circondariale, don Pietro Zardo, e dell’Istituto penale minorile, don Otello Bisetto, la Caritas diocesana, con il direttore, don Bruno Baratto, e altri operatori, e tutte le persone, laici, laiche, consacrate che compongono la cappellania del carcere. Presente anche la direttrice dell’Ipm, Barbara Fontana.

Insieme al vescovo, hanno camminato tra le mura del carcere anche il vicario generale, mons. Mauro Motterlini, e il vicario per le Collaborazioni pastorali, don Antonio Mensi. Hanno accolto l’invito a esserci anche il sindaco della città, Mario Conte, e Domenico Demaio, vicario del Questore di Treviso.

Ad aprire le porte a tutti, il direttore della Casa, Alberto Quagliotto, insieme alla Polizia penitenziaria e a tutto il personale. Toccanti le testimonianze, sia dei detenuti che dei volontari, capaci di far entrare i presenti, almeno un po’, oltre il muro della struttura, tra le celle e i corridoi, spazi di reclusione, certo, ma anche di incontro e di scambio.

Tre tappe, tre porte da attraversare, con tutto il loro “peso” e rumore, a partire dalla prima, quella che, per chi entra per scontare una pena, “si chiude alle spalle e ti lascia una sensazione di nausea, di freddo – ha testimoniato un detenuto -. E’ il trauma dell’allontanamento dalla famiglia, dal lavoro, dalla vita di tutti i giorni. Tutto ciò si trasforma in smarrimento, rabbia, confusione, abbandono, quasi un senso di terrore. Si è spenta ogni luce, tutto è oscuro. Quella stessa porta che si chiude dietro alle nostre spalle, si chiude anche davanti alle nostre famiglie, ai nostri affetti, al nostro futuro, alla società. Separa persone, sentimenti e speranze”. E proprio davanti a quella porta, in modo significativo, tutti si sono uniti nel cantare “Esseri umani” di Mengoni.

La seconda porta rappresenta la vita all’interno del carcere, difficile, spesso buia, ma resa meno dura dalle relazioni, dagli incontri, dai piccoli progetti quotidiani. “Sono gli incontri tra queste due porte che mettono in moto il cammino. E tra questi incontri i volontari fanno una grande differenza. E’ spesso grazie a loro che si comincia a intravvedere quella terza porta laggiù e ad averne meno paura” ha raccontato un’altra testimonianza. Commovente il ricordo di Angelo Rigo, volontario mancato poche settimane fa, che entrava in carcere ogni sabato, insieme ad altri volontari, per un momento di catechesi, per aiutare a coltivare quella fede che a volte le persone detenute riscoprono, insieme alla preghiera.

Infine, la porta che si chiuderà alle spalle il giorno dell’uscita, dopo aver concluso la pena, per un ritorno “nel mondo fuori” dove le porte chiuse non mancheranno. “Per poter attraversare questa ultima porta – le parole di un altro detenuto – abbiamo bisogno di non essere lasciati soli, di essere riconosciuti, di essere accompagnati nella ricostruzione. Per molti di noi le opportunità sono difficili anche solo da immaginare, quando si esce soli con il sacco in mano, spesso senza più un posto dove andare, senza la presenza di qualcuno capace di riconoscere la nostra voce”. Ed ecco l’appello del Vescovo, che richiama lo scambio di lettere con i detenuti, quasi all’inizio di quest’anno giubilare: un appello alla società tutta, alla Chiesa, a “mantenere la nostra umanità, soprattutto nell’accogliere chi esce, nel dare una nuova possibilità, nuovi spazi, ad aprire le braccia perché nessuno possa sentirsi abbandonato. Possiamo farlo nella preghiera, a cui invito tutte le comunità cristiane, e lo facciamo nella forza della comunità nel suo insieme, perché il senso di ogni vera libertà è l’amore. La parola amore, per me, ha l’immagine di Dio che si fa uomo e che dà la vita per ogni uomo: è la croce. Passando attraverso la croce con amore, noi siamo dei risorti. Non perdete la speranza”.

Gratitudine per l’iniziativa e per la grande presenza è stata espressa dal direttore Quagliotto, che ha parlato della realtà del carcere come di “un pezzo della città, che va conosciuto e compreso, entrando, ascoltando, vedendo” e ha invitato, annunciando il termine del proprio mandato, a “coltivare e a far riconoscere la speranza, soprattutto da parte di chi ha gli strumenti per farlo, perché questo sia un luogo di passaggio e possa offrire occasioni di rinascita”. Al termine, saluti, abbracci, sorrisi, benedizioni chieste e donate, e un momento conviviale condiviso. Come in una vera festa giubilare.

Dal servizio Antenna Tre:

Dal giornale Il Gazzettino

 

Foto: agenzia Fotofilm Treviso


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