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“Non possiamo, come famiglia umana, guardare in faccia alla disabilità solo ogni quattro anni e prendendo solo ciò che più ci piace e ci disturba meno.”

Nelle ultime due settimane si sono disputate a Rio de Janeiro le paralimpiadi, i giochi olimpici per le persone che hanno delle disabilità. Un evento sportivo è sempre contrassegnato da chiari e scuri, da motivazioni nobili, ma anche da interessi meno limpidi. A me sembra importante rileggere queste due settimane con uno sguardo diverso, uno sguardo illuminato dalla fede, che ci invita ad intonare insieme l’inno della vita.

Prima di tutto mi sembra importante sottolineare il clima della competizione che come messaggio di pace e serenità ha bucato gli schermi e, credo, toccato il cuore di molti. È stato un insegnamento prezioso quello di questi atleti disabili che hanno gioito non per la vittoria sportiva, ma per quella vittoria che è l’esserci, che è la gioia di vivere pur tre mille difficoltà e sofferenze. La gioia dell’esserci e dell’affermare la bellezza della vita da parte di questi fratelli e sorelle è stato ed è qualcosa di disarmante. Noi ci lamentiamo sempre di tutto e non sappiamo apprezzare le opportunità che la vita ci riserva. L’umiltà, la serenità e la pace vissuta da questi atleti è un chiaro appello a ripensare le priorità e gli stili della nostra vita. La bellezza e la gioia si trovano solo nella misura in cui si cercano dentro di noi.

In secondo luogo è emerso con una certa forza come siamo chiamati tutti e quanti ad una profonda conversione per uscire dalla logica dello scarto che ci porta a relegare la vita di chi è in difficoltà al di là del muro dell’efficienza e del successo. Non possiamo, come famiglia umana, guardare in faccia alla disabilità solo ogni quattro anni e prendendo solo ciò che più ci piace e ci disturba meno. Gli atleti delle paralimpiadi non solo hanno lanciato un messaggio di speranza dicendo con la loro storia che una rinascita è sempre possibile, che la vita trionfa sulla sofferenza e sulla morte, ma sul luogo della competizione sportiva hanno portato tutta la loro storia e la loro vita. Hanno portato le loro sofferenze, i loro affetti, le loro famiglie, ogni frammento del loro cammino. E ancora di più hanno portato la voce di chi non ha neanche questa possibilità, di chi è inchiodato dalla sofferenza e annichilito dall’indifferenza. Hanno detto al mondo intero che la vita è sacra e che la disabilità è parte viva di questa umanità, che non esiste il pianeta disabilità, come non esiste il pianeta carcere o il pianeta emarginati o il pianeta profughi o …. In sintesi ci hanno detto che un mondo migliore e diverso dove c’è dignità per tutti è possibile, ma dipende dall’impegno di tutti, dalla volontà di abbattere i muri che sono nella nostra mente e nel nostro cuore e che sono molto più spessi delle barriere fisiche.

Da questo evento sportivo ci arriva il chiaro appello a metterci in gioco per debellare la globalizzazione dell’indifferenza. Tante volte dinanzi alla sofferenza, alla diversità, alle difficoltà battiamo subito in ritirata. Decliniamo le nostre responsabilità affermando che è cosa che non ci riguarda, che è troppo grande per noi, che non ci sono vie di soluzioni. Dobbiamo riprendere in mano la speranza e sentire che la nostra piccola goccia è preziosa nel grande oceano della vita, come ricordava Santa Teresa di Calcutta. Ognuno di noi può essere parte viva di un processo di amore e speranza che sempre ci precede e supera. Nulla è impossibile, quando apriamo le porte del nostro cuore alla Vita. È quello che ci hanno insegnato questi atleti a Rio, è quello che ci insegna chi ogni giorno nel silenzio della quotidianità continua a tracciare sentieri di riconciliazione e pace nei cuori degli uomini.

Qualche mese fa ho avuto il dono di incontrare Gregoire Ahongbonon, un gommista del Benin che ha lasciato tutto per prendersi cura delle persone con disagio psichico, che purtroppo in tante parti dell’Africa vengono ancor oggi emarginate e incatenate a degli alberi. Ha iniziato andando da un malato ed ora sta promuovendo progetti di riabilitazione sociale in cinque stati dell’Africa subsahariana. Gregoire crede fermamente che c’è la possibilità di accompagnare e onorare la dignità di ogni uomo. Questo suo stare e credere lo ha portato da gommista benestante ad essere considerato il San Francesco d’Africa.

Il bene è contagioso e va fatto bene. Gregoire che libera dalle catene molte persone ammalate ed emarginate, ci ricorda che anche noi siamo chiamati a lasciare che qualcuno ci liberi dalle catene dell’indifferenza e dell’individualismo. L’accoglienza dell’altro non è un evento speciale, ma uno stile di vita quotidiano. Finite le paralimpiadi, finito l’anno della misericordia, non lasciamo che tutto scivoli nel cassetto dei ricordi, né smarriamo la strada della condivisione e della comunione con chi è in difficoltà. Abbassati i riflettori c’è una vita che continua, fatta di gioie e dolori, ma è la nostra vita: amiamola e rendiamola sempre più terreno di comunione dove nessuno è escluso.


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