UN ANNO DI ACCOGLIENZA IN CASA DELLA CARITÀ - CARITAS TARVISINA

UN ANNO DI ACCOGLIENZA IN CASA DELLA CARITÀ

Oggi 11 novembre, festa di San Martino è passato un anno dall’apertura delle Accoglienze in Casa della Carità. L’Accoglienza è il segno che richiama il gesto fatto da San Martino di stendere il mantello della carità su quanti patiscono il gelo dell’indifferenza e della miseria. E’ un segno che auspichiamo possa  essere vissuto da tutta la nostra Chiesa.

Il peso della povertà come tutti sappiamo e viviamo si è progressivamente allargato. Non tutti sono poveri allo stesso modo. Un gruppo sta peggio degli altri. Si tratta di quelle  persone che non riescono ad accedere ai beni essenziali, a uno standard di vita minimamente accettabile. Sono gli ultimi degli ultimi. Ma accanto a loro ci sono molti “poveri in lista d’attesa”, persone che rischiano di diventare poverissimi visto che basta poco (la perdita del lavoro, la revoca di un finanziamento, una malattia) per passare dalla categoria dei poveri relativi a quelli assoluti. La povertà è una condizione in continuo cambiamento: interessa persone che mai avrebbero pensato di cadervi.

Chi è povero è anche povero di diritti, di opportunità, di possibilità. Tra i diritti fondamentali di ogni persona e spesso disattesi ci sono il cibo, l’acqua, la salute, la casa, l’educazione, la giustizia, il lavoro. Se i poveri avessero dei diritti, il primo sarebbe di sperare in una vita migliore, di sapere che l’uscita dalla povertà è possibile. L’opzione preferenziale di Caritas per i poveri rivendica l’uguaglianza in dignità di tutti gli uomini, quale che sia la condizione di miseria, di emarginazione, di malattia a cui un uomo può ritrovarsi ridotto.

Abbiamo scelto di chiamare Agape la progettualità legata ai servizi alla persona attivati presso la Casa della Carità per sottolineare il proposito che, oltre al calore di un riparo notturno, i fratelli accolti possano sperimentare il calore di relazioni che ridanno fiducia e scaldano il cuore. Le riflessioni e le scelte maturate dall’equipe Caritas e condivise con la diocesi sono chiare e ambiziose: dalla marginalità alla promozione umana. Le persone senza dimora, che vivono una solitudine sociale e istituzionale rischiano di perdere la capacità di narrarsi e di partecipare attivamente al corpo sociale.  L’accompagnamento di queste persone prevede la rilettura e ricomprensione della propria storia per individuare percorsi di promozione della persona, cammini che non sono dati “una volta per tutte e per tutti” ma vanno ricercati, “esperiti” e richiedono la pazienza di tempi lunghi. Questo “stare con” è fatto di passi avanti e passi indietro nella condivisione e nel raggiungimento di obiettivi, anche minimi, con gli ospiti, nella ricerca del miglioramento che è possibile.

Un altro elemento cruciale del progetto Agape è il suo respiro diocesano, il suo voler essere stimolo per un’appartenenza più grande, partendo anzitutto dalla ricerca di volontari su tutto il territorio diocesano ma anche di modalità capaci di esortare una comunità cristiana a vivere la sua identità di casa di ogni uomo, di comunità che accoglie. La Casa della Carità vorrebbe essere terreno fertile per azioni pastorali vere e proprie, uno spazio in cui maturi la disponibilità ad assumere la solidarietà in senso cristiano: vogliamo scoraggiare quelle dinamiche che, collocando il “servizio” davanti al “servito”, oscurano la visuale del “servo”, impedendogli di riconoscere Cristo nel povero e riducono a beneficienza la sua carità.

Infine un altro desiderio “forte” per vivere concretamente la corresponsabilità è poter contare sul volontariato e sulle donazioni di beni materiali da parte di privati. Certamente questo traguardo resta  un obiettivo da raggiungere ma già oggi possiamo contare una serie di donazioni rilevanti da parte di alcune aziende del territorio oltre che del servizio attivo di oltre una cinquantina di volontari.

Risultati raggiunti ad oggi

I lavori strutturali sono conclusi per quanto riguarda la realizzazione dei due piani dedicati all’Accoglienza notturna maschile (tot. 18 posti letto) e il piano dedicato all’Accoglienza notturna femminile (tot. 12 posti letto). Ad oggi sono a regime questi  due servizi di Accoglienza notturna (maschile e femminile) mentre il servizio di lavanderia e il servizio di mensa serale saranno avviati nel corso del 2015.

Da novembre 2013 a ottobre 2014 sono state accolte 84 persone nell’Accoglienza maschile, mentre l’Accoglienza femminile, aperta il 15 settembre scorso, ha avuto ad oggi una decina di ospiti .

Con gli ospiti sono stati avviati dei percorsi di accompagnamento e, parallelamente, vengono fatti degli incontri mensili per coinvolgerli progressivamente e secondo le possibilità di ognuno, nella gestione dei servizi, in una sorta di “pensatoio comune”.

La comunità locale, civile ed ecclesiale, si è resa disponibile per prestare servizio presso la Casa della Carità. La cinquantina di volontari attivi nelle Accoglienze  proviene da diverse zone del territorio e ha portato con sé un’arricchente varietà di vissuti. Il percorso formativo a loro destinato ha trovato una buona risposta in termini di presenze e di partecipazione attiva, e ha inoltre avviato interessanti riflessioni e processi di autentica attivazione per una comunità fondata sulla solidarietà. Non sempre è stato facile per i volontari ripercorrere il proprio vissuto e sviluppare una maggiore capacità di accoglienza rispetto alla vita degli altri, ma ogni “fatica” è stata accompagnata da un visibile impegno per superare le resistenze che ogni cambiamento porta con sé. Questo loro impegno personale è stato rinforzato da momenti di accompagnamento capaci di garantire un sostegno continuo, per arrivare alla realizzazione di relazioni vissute positivamente, nella prospettiva di un continuo miglioramento del servizio svolto. Inoltre, la presentazione del progetto Agape in diversi incontri diocesani  ha generato non solo l’invio di volontari per prestare servizio presso la Casa della Carità ma anche la disponibilità di alcuni sacerdoti a svolgere servizio in Accoglienza scegliendo di fare il turno di notte una volta alla settimana.

Alcune riflessioni dell’equipe accompagnamento

Nel corso di un anno di attività, di confronti e di riunioni tra operatori e ospiti, la domanda a cui più volte si è tentato di dare risposta è “In che modo si possono cambiare le cose?” .

Nel tempo abbiamo maturato la consapevolezza che non sarà mai una definizione a dare l’ultima parola su un “fatto umano e sociale”, quanto il continuo interrogarsi sui perché e sui come sia possibile intervenire.

Perché il lavoro quotidiano compiuto contro l’emarginazione possa produrre cambiamenti nella struttura sociale che l’emarginazione produce e alimenta occorrono alcuni elementi fondamentali che come operatori Caritas ci impegniamo a perseguire nella  nostra attitudine e nel nostro lavoro quotidiano:

1) l’importanza di crederci

2) l’importanza di rifiutare le deleghe

3) l’importanza di essere capaci di stare nella dimensione della rete

4) l’importanza di inserire nel proprio lavoro la dimensione dell’advocacy ovvero della tutela a largo raggio dei diritti sociali delle persone delle quali ci si interessa.

1) Il credere nella possibilità del cambiamento, sia delle persone in difficoltà sia della società, è essenziale sotto il profilo motivazionale e fondamentale nel lavoro con la grave emarginazione. Se lavorare per la giustizia sociale significa anche impegnarsi per liberare l’uomo e cambiare la società, il fatto di lavorare con i più poveri tra i poveri può essere un buon presagio di cambiamento purché si creda in essi e in se stessi.

La dignità per un uomo è il valore della sua vita nonostante la condizione vissuta. Questo è ciò che come operatori siamo chiamati a preservare. Soprattutto oggi, in un momento in cui l’uomo subisce un isolamento senza precedenti, è frammentato in sé ed è frammentato nell’accedere ai servizi che dovrebbero garantirgli una tenuta personale e sociale.

L’incontro con la persona senza dimora produce spesso servizi volti a soddisfare bisogni primari che però faticano ad andare oltre la specifica richiesta per affrontare la complessità della situazione. La fatica di capire, di progettare, di essere al fianco in modo più profondo caratterizza l’impegno profuso in questo primo anno di apertura delle Accoglienze in Casa della Carità. La difficoltà con cui ci confrontiamo quotidianamente è di trasformare l’incontro in relazione e riconoscere la persona oltre il suo bisogno, affrontando una riflessione comune, per realizzare un coinvolgimento attivo dell’intera comunità. Della comunità cristiana in primis che non può dimenticare che il compito affidatole non è rispondere al bisogno ma incontrare il bisognoso.

E come si fa? Anzitutto accogliendo l’altro senza soffocare la sua libertà. Non è facile condividere povertà senza umiliare, senza voler cambiare l’altro secondo i parametri di chi presta l’aiuto e senza sostituirsi a chi vive momenti di difficoltà. Tuttavia non servono adulti “impietositi” ma adulti accoglienti, capaci di superare la tentazione di rispondere solamente ai bisogni visibili  – per quanto preziosi e urgenti – ma di accogliere l’uomo nella sua interezza, di chiamare ogni uomo per nome e richiamarlo a se stesso, scardinando assistenzialismo e promuovendo le sue potenzialità ancora realizzabili. La carità deve consistere nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo ma come fraterna condivisione.

2) Il rifiuto delle deleghe è il rifiuto della falsa idea di noi stessi come “onnipotenti”. Il tema della delega nega la dimensione essenzialmente relazionale di ogni problema sociale e non lascia spazio per la necessaria attivazione della responsabilità dell’intera comunità per la loro soluzione. Non si può affermare “date a noi le risorse e risolveremo i problemi” ma nemmeno “vi diamo le risorse e voi risolverete i problemi” : questa non è sussidiarietà ma semplificazione.

Occorre assumere una consapevolezza responsabile del nostro agire nella società: anzitutto la capacità di attivare le risorse all’interno della comunità per costruire dal suo interno il benessere di tutti cominciando dal coloro che stanno peggio. Questo è lo scopo della funzione pubblica riconosciuta ai soggetti pubblici ma riconosciuta anche alla società civile quando si attiva per perseguire obiettivi di pubblica utilità.

3) La “rete” può essere una dimensione vincente per produrre cambiamenti all’interno della società ma perché sia utile occorre porre a suo fondamento una visione unitaria della persona, come soggetto che non può essere ridotto a un catalogo di bisogni da soddisfare sul mercato dei servizi ma che ha bisogno anzitutto di prospettive di senso per la sua vita e di significati da attribuire a ciò che gli accade, compresa la necessità di rivolgersi ai servizi per soddisfare i bisogni primari. Lavorare in rete in questa prospettiva va oltre il semplice coordinamento di servizi diversi e richiede di mettere in rete le idee, le motivazioni, le competenze e le solidarietà praticate.

Bisogna stare attenti alla risposta immediata, spesso emergenziale: un servizio attento alla dimensione educativa non può prescindere da una cultura progettuale capace di produrre nel tempo un cambiamento nella comunità locale ed ecclesiale. Ma, di nuovo, è solo dall’incontro con le attese del povero che c’è speranza di avviare un cammino di promozione umana: se manca l’incontro con la persona, se non si cerca di capire, di individuare assieme strade percorribili, se manca una lettura complessiva non ci potranno mai essere cambiamenti.

4) Infine l’ingrediente che ci sembra fondamentale per dare concretezza al cambiamento politico attraverso l’agire sociale è l’advocacy, il “dare voce a chi non ha voce”, la funzione di tutela attiva dei diritti delle persone mediante azioni di informazione, stimolazione critica, pressione politica verso coloro che hanno potere decisionale.  L’advocacy però non intende indebolire i poteri pubblici – ai quali è storicamente affidata la garanzia dei diritti dei più deboli e vulnerabili – ma affiancarli e rinforzarli nello svolgimento di questa indispensabile funzione, aggiungendo coraggio, competenza e costruendo attorno ad essi consenso e coesione sociale.

Questa azione di advocacy da parte della comunità ecclesiale nello svolgere i propri servizi ha anche a che fare con la categoria della profezia, elemento fondante nell’azione sociale della Chiesa. L’oggi dello stato sociale ci chiede una forte azione di vigilanza che dica ciò che non risponde ai valori evangelici.

Il popolo dei senza dimora e dei vulnerabili  è l’immagine evidente di un mondo di diritti negati. Il problema della residenza, come quello del diritto alla salute o al lavoro o a un alloggio, per non parlare dei tentativi di integrazione nel tessuto sociale ci raccontano di processi di esclusione dalla partecipazione a pieno titolo come cittadini. Spesso ci siamo accorti che la denuncia nasce dalla constatazione di un evento individuale o collettivo (la morte di un senza dimora per il gelo invernale ad esempio) quasi mai da attenta e appassionata lettura della realtà esistente, basata magari sui dati dei servizi di accoglienza, di ascolto, di prossimità.

Non possiamo dimenticare che la dignità umana è uguale per ogni persona e il rispetto della persona implica il rispetto dei diritti che scaturiscono dalla sua dignità: non possiamo non riconoscere la persona in ogni uomo che incontriamo cosi come non possiamo esimerci dal rivendicare per tutti l’inviolabilità dei diritti. Non possiamo non affermare che l’uomo vale di più per ciò che è e non per ciò che possiede.

Si innesta in questo discorso il tema della speranza come segno. Laddove i percorsi di povertà e vulnerabilità assottigliano la speranza, noi operatori Caritas poniamo in essere la nostra prossimità, ci assumiamo. L’oggi dello stato sociale ci chiede una forte azione di vigilanza che dica ciò che non risponde ai valori evangelici.  responsabilmente il compito di essere dimora per le persone senza dimora.


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