La gioia di esserci: sintesi dell'intervento di Mons. Luca Bressan - CARITAS TARVISINA

La gioia di esserci: sintesi dell’intervento di Mons. Luca Bressan

IMG_7477L’assemblea delle Caritas parrocchiali è un momento di Chiesa molto forte nella quale si vive un confronto schietto e ci si lascia illuminare dalla Parola di Dio. Quest’anno il tema dell’assemblea era incentrato sulla Evagelii gaudium di Papa Francesco. Con la preziosa guida di don Luca Bressan si è cercato di cogliere come è necessario attingere forza e coraggio dalla Carità di Dio per poi saperla ridonare ad altri. Inoltre è stato un invito chiaro ad uscire verso le periferie esistenziali dell’uomo d’oggi, imparando ad offrire speranza e vicinanza, non esclusivamente le cose che abbiamo e che molte volte accumuliamo in abbondanza. Infine le sue parole ci hanno provocato nel cogliere il rischio che la solidarietà e la carità di una comunità scivolino sul  piano economico. È stata una mattinata ricca di stimoli che ha aperto molte strade.

Ecco alcuni tra i passaggi più salienti dell’intervento di don Luca.

La carità di una Chiesa in uscita: le sue sfide, il suo futuro

Con la pubblicazione dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (= EG) lo scorso mese di novembre si è chiuso il cammino iniziato ormai quattro anni fa con l’indizione da parte di Papa Benedetto XVI della XIII Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione (= NE). Un camino che ha visto mescolarsi in un mix inedito eventi previsti e preparati con altri momenti assolutamente imprevisti ed imprevedibili. I noti avvenimenti che si sono succeduti tra l’11 febbraio (dimissioni di Papa Benedetto XVI) e il 13 marzo dello scorso anno (elezione di Papa Francesco) hanno avuto dentro la Chiesa cattolica un effetto di acceleratore temporale molto potente: temi, stili e indirizzi ecclesiali che fino a pochi mesi fa sembravano imprescindibili e indilazionabili sono apparsi improvvisamente desueti e invecchiati, superati dal mutamento di paradigma comunicativo che la successione dei Papi ha prodotto.

C’è sicuramente un che di inevitabile e anche di spirituale in un simile movimento; ma c’è anche una certa dose di costume, di moda. Occorre dunque esercitare più che mai in questi periodi di passaggio la virtù del discernimento, perché possa risultare in modo chiaro ciò che è giusto lasciare cadere e ciò che invece occorre riprendere, anche attraverso l’ausilio di linguaggi e metafore nuove, del clima e del vissuto ecclesiale precedente, che altrimenti corriamo il rischio di liquidare frettolosamente come si trattasse di questioni ormai superate. Il tema della NE non poteva non rientrare in questa dinamica e non risentire di tutto questo itinerario: lanciato in grande stile nell’imminenza del Sinodo, grazie anche alla creazione di una struttura espressamente dedicata ad esso (il Pontificio Consiglio per la NE), nel succedersi dei pontificati ha perso rapidamente molte delle energie che lo sostenevano, per apparire oggi come un termine semiabbandonato, non più in agenda.

Ma è proprio così? L’intento di questo articolo è di mostrare come la NE ha attraversato questo periodo denso di trasformazioni, uscendone a sua volta reinterpretata ed arricchita. Percorreremo perciò con il lettore un itinerario che, prendendo le mosse dal pensiero di Benedetto XVI, giunge a mostrare come il concetto è stato assunto e rilanciato dal magistero di Papa Francesco, nella EG. Il percorso fatto inoltre ci fornirà l’occasione per un primo ingresso in una esortazione, la EG, che si presenta così ricca di temi e di piste di interpretazione, da prestarsi a più di una strategia di lettura.

Una ricostruzione storica volutamente molto originale

Quale contenuto ha dato Papa Benedetto XVI alla NE? Che progetto legava a questo concetto? Paradossalmente, se partiamo dalla fine, il disegno si dipana in modo limpido. Chiudendo il Sinodo, l’allocuzione all’Angelus del 28 ottobre 2012, è l’occasione scelta da Benedetto XVI per una riflessione breve ma incisiva sul suo modo di intendere il contenuto della NE: «la stagione conciliare ci ha aiutato a riconoscere che la nuova evangelizzazione non è una nostra invenzione, ma è un dinamismo che si è sviluppato nella Chiesa in modo particolare dagli anni ’50 del secolo scorso, quando apparve evidente che anche i Paesi di antica tradizione cristiana erano diventati, come si suol dire, “terra di missione”. Così è emersa l’esigenza di un annuncio rinnovato del Vangelo nelle società secolarizzate, nella duplice certezza che, da una parte, è solo Lui, Gesù Cristo, la vera novità che risponde alle attese dell’uomo di ogni epoca, e dall’altra, che il suo messaggio chiede di essere trasmesso in modo adeguato nei mutati contesti sociali e culturali».

In questo breve passaggio Benedetto XVI accende volutamente una operazione di reinterpretazione del concetto di NE che stupisce per il suo carattere allo stesso tempo ardito e denso di prospettive. Legando il tema della nuova evangelizzazione ai tentativi di riforma della Chiesa avviati dalla Mission de France Benedetto XVI stravolge il modo abituale di comprendere sia questo termine che la sua genesi. Si tratta di un’operazione ermeneutica carica di conseguenze: intende infatti da un lato rileggere gli ultimi decenni della storia ecclesiale imprimendo loro una chiave unitaria di lettura; e dall’altro intende elevare il concetto di NE a categoria interpretativa di tutta la vicenda conciliare (preparazione, celebrazione, recezione), sottraendola alla sua genesi storica, che l’ha vista mergere come “un secondo paradigma” di declinazione della riforma ecclesiale, seguito al primo paradigma, detto della “secolarizzazione” per via di sostituzione oppositiva.

Per raccogliere in positivo le istanze di un movimento di riforma che ha animato la Chiesa negli ultimi settant’anni e la sta ancora attraversando, evitando però i rischi di contrapposizione e di lacerazione che in più di un momento di questa storia sono emersi; per superare una declinazione di questa riforma che sembra funzionare per paradigmi che si succedono sovrapponendosi e contrapponendosi, Benedetto XVI immagina dunque una lavoro di decostruzione e di ricostruzione del concetto di NE. Si tratta di un lavoro preparato, come dimostra la pubblicazione dell’Enchiridion per la NE, che anticipa e documenta questa reinterpretazione del termine, intravedendone l’origine proprio in alcuni discorsi di Papa Pio XII.

Così facendo, Benedetto XVI pensa alla NE come a un concetto da riformulare nei suoi contenuti essenziali: una sorta di neologismo, un terzo paradigma che si affianca, assume e sostituisce i due precedenti, della secolarizzazione e della (nuova) evangelizzazione. Al paradigma della secolarizzazione il Papa rimprovera il difetto di identità e di spiritualità, come vedremo più avanti; a quello della nuova evangelizzazione nella sua prima accezione, elaborato in modo simmetrico e contrappositivo, il rischio di burocrazia e proselitismo e di scarsa capacità di riconoscimento dell’interlocutore (come ebbe a dire alla Curia Vaticana). Così intesa, la NE è un’attitudine anzitutto spirituale (riforma nel senso della fede), che permette alla Chiesa di porsi in modo nuovo dentro la storia; una modalità capace di portare di nuovo la questione di Dio al cuore delle domande degli uomini. Come affermato nell’omelia di chiusura del Sinodo, sempre il 28 ottobre 2012: «un terzo aspetto riguarda le persone battezzate che però non vivono le esigenze del Battesimo. Nel corso dei lavori sinodali è stato messo in luce che queste persone si trovano in tutti i continenti, specialmente nei Paesi più secolarizzati. La Chiesa ha un’attenzione particolare verso di loro, affinché incontrino nuovamente Gesù Cristo, riscoprano la gioia della fede e ritornino alla pratica religiosa nella comunità dei fedeli. Oltre ai metodi pastorali tradizionali, sempre validi, la Chiesa cerca di adoperare anche metodi nuovi, curando pure nuovi linguaggi, appropriati alle differenti culture del mondo, proponendo la verità di Cristo con un atteggiamento di dialogo e di amicizia che ha fondamento in Dio che è Amore. In varie parti del mondo, la Chiesa ha già intrapreso tale cammino di creatività pastorale, per avvicinare le persone allontanate o in ricerca del senso della vita, della felicità e, in definitiva, di Dio».

Letta da questa prospettiva emerge in modo nitido l’intenzione di Papa Benedetto: immaginare l’appuntamento sinodale (la sua preparazione, la sua recezione) come una sorta di gestazione, di tempo dedicato alla raccolta di energie in vista dello sforzo di rinnovamento richiesto alla Chiesa.

I contenuti della NE, volutamente riformulati

Quali sono in modo analitico i contenuti del concetto di NE rideclinato da Benedetto XVI secondo i canoni di un nuovo paradigma? Immaginato come uno strumento per il rinnovamento della Chiesa, il concetto di NE assume dalla Missione di Francia (grazie alla nuova origine immaginata per questo termine) tre dati fondamentali: l’intuizione che non è possibile trasmettere la fede senza pensare questo gesto in collegamento stretto con la forma che la Chiesa assume dentro la società; la constatazione che l’avvento della cultura urbana non è una semplice evoluzione per via lineare della cultura umana, ma piuttosto l’avvento di un nuovo paradigma che chiede anche al cristianesimo un ripensamento radicale delle forme culturali attraverso le quali esprime la sua identità dentro la storia; la certezza che una simile trasformazione non può non assumere anche per la Chiesa i tratti di una riforma dai contorni estesi e radicali.

In modo critico tuttavia, proprio in riferimento ai presupposti appena elencati, Benedetto XVI rimprovera a questo primo paradigma di avere elaborato risposte non all’altezza delle sfide intraviste. Più in particolare, rimprovera di aver lavorato per una riforma strutturale della Chiesa, ma poco capace di raggiungere l’obiettivo di una riforma spirituale, cadendo così nel rischio di una “autosecolarizzazione” spiegata in questi termini: le comunità cristiane, che non sono collocate dentro uno spazio astratto ma sono inserite nelle culture del mondo, hanno vissuto senza accorgersi più di un processo di omologazione alla cultura ambiente. È accaduto così che la secolarizzazione ha eroso il loro patrimonio linguistico, indebolendo il loro modo di comprendersi, privandole delle parole per la preghiera, svuotando del loro significato gli strumenti per mantenere attiva la loro relazione con Dio, indebolendo i loro processi di tradizione; portando di conseguenza molte comunità cristiane all’esito (non voluto in termini espliciti) di trovarsi private del legame fondamentale che nutre e sostiene la loro fede e la loro identità.

In questo clima, agli occhi di Benedetto XVI la NE è lo strumento che permette alle Chiese di arrestare ogni processo di involontaria autosecolarizzazione. La NE chiede ai cristiani e alle loro comunità di tornare a cercare i segni della nostalgia di Dio, di immaginare delle rispose a questa sete, senza porre in alternativa ciò che è essenziale con le ineludibili conseguenze sociali della fede pregata. Non si deve contrapporre la preghiera e l’azione sociale a favore dei poveri. Se si è impoverito il lessico della fede ed è stato eroso il linguaggio che teneva viva la relazione con Dio, bisogna far sì che questo nostro tempo divenga il luogo per la costruzione di un linguaggio che dica nell’oggi l’identità cristiana e la sequela Christi.

La NE si trova così a confrontarsi con una seconda dimensione della trasformazione in atto, quella organizzativa: i forti movimenti di popolazione, la caduta della pratica religiosa hanno avuto come conseguenza l’indebolirsi e in più di un luogo il venir meno delle tradizionali forme di presenza della Chiesa tra la gente, in molti casi trasformando in sportelli fornitori di servizi quelli che una volta erano luoghi vitali in cui fare esperienza di fede. Benedetto XVI ha indicato la NE come lo strumento per abitare in modo non ingegneristico la necessaria trasformazione della presenza della Chiesa tra le case degli uomini, ma mantenendo la questione al giusto livello che le compete, quello teologico, della forma ecclesiae.

La NE ha il compito di aiutare la Chiesa a disegnare la forma di comunità cristiane che siano davvero in presa con l’oggi, capaci di annunciare il vangelo in termini non solo comprensibili, ma affascinanti. In effetti il Sinodo ha aiutato ad identificare questi tratti: un radicamento evangelico capace di parlare al mondo di oggi; la capacità di porsi ai crocevia della vita sociale del proprio tempo non avendo paura di prendere la parola in prima persona per testimoniare la propria fede; la ricerca attiva di momenti di comunione vissuta, nella preghiera e nello scambio fraterno; una predilezione naturale per i poveri e gli esclusi; la passione per le giovani generazioni e per la loro educazione.

NE: le fatiche della gestazione

«Come può accadere questo?» (Gv 3,10) «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3,4) L’immagine di Nicodemo, concentrato nello sforzo di entrare nella visione che Gesù gli sta aprendo davanti agli occhi – e allo stesso tempo sbalordito e confuso per la novità di ciò che sta apparendo con chiarezza alla sua mente –, può essere assunta a cifra dello sforzo e della fatica interpretativa e immaginativa che la Chiesa ha vissuto nel tentativo di ricomprendere se stessa alla luce della NE, cifra resasi particolarmente evidente durante la celebrazione dell’Assemblea sinodale.

Il carattere di gestazione e il tono di attesa della metafora giovannea – quasi una sorta di parto (Rm 8,22) – esprimono a mio parere in modo lucido le distanze che si sono percepite tra il disegno appena illustrato di Benedetto XVI e la sua recezione dentro il tessuto ecclesiale. E danno contenuto anche al gesto delle dimissioni, visto come una conferma della necessità e dell’urgenza di una riforma della Chiesa, perché sappia rilevare le sfide che abbiamo descritto, ben condensate nel concetto di NE. Una riforma della Chiesa che la renda capace di testimoniare con la propria fede la credibilità del volto di Dio che Gesù Cristo ci ha rivelato è il compito che Benedetto XVI consegna al suo successore, trasmettendogli l’incarico di redigere lui il testo che rilegga il Sinodo e lo consegni alla Chiesa.

Durante i suoi interventi il Papa si è rifatto più volte alle parole dell’Apocalisse: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo» (Ap 3,15); «Ho però da rimproverati di avere abbandonato il tuo primo amore» (Ap 2,4). La Chiesa ha bisogno dello stimolo della NE per evitare la mediocrità che rischia di contagiarla, come conseguenza delle trasformazioni che il cambiamento culturale sta generando in noi. Una Chiesa tiepida non in conseguenza di particolari peccati o specifiche deviazioni morali, ma soprattutto in conseguenza di un atteggiamento di ignavia, di uno stordimento di fronte ai mutamenti che la paralizza e la rende incapace di testimoniare. A trasformazioni così forti si risponde con un soprassalto di calore della nostra fede: ecco il senso della NE.

Interpretava in questo modo la sfida della NE il testo dei Lineamenta, che assumeva e ben spiegava la prospettiva ermeneutica di Benedetto XVI: come mai – chiedeva in più punti il testo dei Lineamenta – non riusciamo a costruire una lettura del presente che sappia svolgere il duplice compito da un lato di unificare un corpo ecclesiale smarrito e frammentato (in seguito alle emozioni e alla paura di trovarsi dentro un contesto via via più estraneo alle nostre tradizioni e ai linguaggi), e, d’altro lato, sappia allo stesso tempo dare a questo corpo le energie per immaginare un futuro al nostro essere cristiani? La risposta a questa domanda è proprio quell’esercizio di unificazione sintetica delle trasformazioni e di una loro declinazione all’interno della questione di una forma ecclesiae adeguata alla (post)modernità che non soltanto è la premessa a quel compito di NE a cui è stata chiamata la Chiesa tutta intera, ma ne è anche il contenuto più profondo. «La domanda circa il trasmettere la fede […] non deve indirizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci e neppure incentrarsi analiticamente sui destinatari, per esempio i giovani, ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di questa operazione spirituale. Deve divenire una domanda della Chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema in maniera non estrinseca, ma corretta, poiché pone in causa la Chiesa tutta nel suo essere e nel suo vivere. E forse così si può anche cogliere il fatto che il problema della infecondità dell’evangelizzazione oggi, della catechesi nei tempi moderni, è un problema ecclesiologico, che riguarda la capacità o meno della Chiesa di configurarsi come reale comunità, come vera fraternità, come corpo e non come macchina o azienda» (Lineamenta, n. 2).

NE: una rilettura inedita

 L’elezione di Papa Francesco porta con sé, come era prevedibile, delle conseguenze significative per il concetto che stiamo analizzando. Non è la prima volta che a stendere l’esortazione che riprende il dibattito sinodale e le sue conclusioni (le propositiones consegnate dai padri sinodali al Papa) non sia il pontefice che ha guidato l’assise: si veda il precedente caso del sinodo sulla catechesi (tenutosi nel 1978), indetto e presieduto da Papa Paolo VI, ma la cui esortazione fu stesa da Papa Giovanni Paolo II (Catechesi Tradendae, 1979). Nel caso che stiamo analizzando, tuttavia, c’è un ulteriore elemento inedito: il Papa chiamato a redigere il documento non ha partecipato all’assemblea sinodale, non essendone né membro eletto né nominato.

La scomparsa dell’attributo “postsinodale” nel titolo del documento sta proprio a significare questa peculiarità: pur rifacendosi in modo diretto al Sinodo, pur citando la metà delle 58 propositiones consegnate al Papa, il testo va letto non tanto come la tappa direttamente conseguente, secondo una logica lineare, a quell’evento; quanto piuttosto come un suo primo esercizio di recezione, ovvero come una tappa successiva vera e propria, frutto della dinamica tipica della traditio che regge il cammino ecclesiale (che vede il momento della consegna, della receptio e della successiva traditio).

La EG è dunque un testo che se da un lato dichiara tutta la sua continuità con l’evento sinodale, dall’altro segna nei suoi confronti un punto di cesura, per situarsi come un primo momento di recepito, di ascolto e di rilancio. L’assunzione e l’utilizzo del concetto di NE va letto entro questa cornice: il suo utilizzo parsimonioso (siamo in un rapporto di circa 1 a 10 rispetto al concetto classico di evangelizzazione: il termine “evangelizzazione” è usato una novantina di volte, contro le neanche 10 di NE); il rilancio della sua definizione codificata («la nuova evangelizzazione chiama tutti e si realizza fondamentalmente in tre ambiti: la pastorale ordinaria, le persone battezzate che però non vivono le esigenze del Battesimo,la proclamazione del Vangelo a coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo hanno sempre rifiutato»:EG 14); le sue riprese secondo una logica di continuità («la NE deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati»: EG 120); gli sviluppi in chiave di discontinuità («in realtà, ogni autentica azione evangelizzatrice è sempre “nuova” »: EG 11); le evoluzioni inedite e assolutamente originali del concetto («Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La NE è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro»: EG 198).

Diventa perciò un esercizio interessante per lo sviluppo della nostra coscienza ecclesiale cogliere le variazioni conosciute dal concetto di NE. Potremo così a nostra volta immergerci in modo attivo in questo processo di receptio; soprattutto potremo sperimentare quanto ancora il concetto di NE sia capace di svolgere – attraverso nuove traduzioni e arricchimenti di significato – la funzione per la quale era stato rilanciato nel dibattito da Papa Benedetto XVI: favorire un processo di riforma della Chiesa, un modo più maturo di abitare da cristiani il mutamento culturale in atto. Svolgeremo questo esercizio di analisi catalizzando la nostra attenzione attorno a tre nuclei di condensazione: la NE e la domanda di riforma della Chiesa; la NE e il giudizio dato sul mondo e la sua cultura; la NE e gli strumenti per l’annuncio del messaggio cristiano oggi.

NE e Chiesa: una riforma sempre più urgente

Inseriti nel solco della receptio, diventa abbastanza semplice cogliere come i contenuti che strutturano il campo semantico del concetto di NE siano ripresi, sviluppati e arricchiti con originalità nella EG. Questa osservazione vale in primo luogo per il contenuto fondamentale, ovvero l’esigenza di una riforma della Chiesa, nelle sue strutture capillari come nei suoi strumenti di coordinamento. Con la metafora molto efficace di una “Chiesa in uscita” (EG 20) Papa Francesco non soltanto fa sua questa esigenza, ma la rilancia con una energia ed una intensità ancora maggiori. I contenuti della riforma sono gli stessi, pur espressi con linguaggi e immagini bibliche differenti: una Chiesa chiamata a radicarsi sempre di più nel realismo dell’esperienza di Dio che la anima; una Chiesa che fonda la sua forza di convincimento proprio in questa esperienza; una Chiesa che trae da qui la sua urgenza missionaria.

È il nucleo fondamentale della bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo (EG 36) il motore dell’azione evangelizzatrice della Chiesa. Le assonanze con il magistero conciliare sono chiare e manifeste (si veda ad esempio DV 7), come Papa Francesco stesso afferma. Sono evidenti anche le assonanze con il magistero del suo predecessore, Papa Benedetto XVI, che nell’Enciclica Deus Caritas est parlava dell’essenza del cristianesimo nei termini di una esperienza di incontro con Dio che ci ha amati per primo (DCE 1).

L’indebolimento di questa certezza ha reso fiacca e poco efficace l’azione evangelizzatrice della Chiesa: una fede ridotta a dottrine (EG 35), la mancanza di proporzione e di capacità di concentrazione nell’annuncio (EG 37) hanno inibito già nel linguaggio la forza dirompente dell’annuncio della misericordi di Dio; hanno reso astratta e quindi arida la gioia del Vangelo.

Uscire da questo circolo vizioso è possibile, e il Papa indica con chiarezza la strategia perché l’annuncio missionario riscopra la sua efficacia: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano» (EG 24). È una riforma in senso spirituale, quella chiesta da Papa Francesco alla Chiesa, più che una riforma di strutture e di organigrammi pastorali. È una riforma spirituale che trasfigura le comunità cristiane, rendendole di nuovo capaci di seminare il Vangelo dentro le culture e le società che abitano. Senza che ci sia continuità voluta, sono chiare le assonanze con la riforma chiesta alle comunità cristiane dal Sinodo sulla NE, come il testo preparatorio è in grado di documentare, elencando gli ingredienti dello stile che oggi queste comunità dovrebbero assumere per rendere ragione della loro fede: «capacità di vivere e di motivare le proprie scelte di vita e i propri valori; desiderio di professare in modo pubblico la propria fede, senza paure e falsi pudori; ricerca attiva di momenti di comunione vissuta nella preghiera e nello scambio fraterno; predilezione spontanea per i poveri e gli esclusi; passione per l’educazione delle giovani generazioni».

NE e logica del mondo

Come abbiamo potuto vedere nella prima parte di questo testo, la NE era stata lanciata per contrastare una cultura che produceva un distacco da Dio come conseguenza di un infiacchimento e di un appannamento della volontà. Anche questo contenuto viene ripreso e rilanciato in modo chiaro da EG, che lo declina attraverso metafore innovative e provocanti: «Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita» (EG 2).

Il giudizio che viene dato sul mondo è senza soluzione di continuità rispetto al passato. Riprendendo il pensiero di san Paolo, è un giudizio di non assimilazione, come insegna Rm 12,2: occorre non conformarsi alle logiche e alle culture che il mondo esprime, ma adoperarsi perché l’adesione alla fede cristiana operi una conversione del nostro modo di pensare, permettendoci di costruire giudizi inediti sulla storia e schemi alternativi per il nostro agire. Papa Francesco sviluppa questa attitudine declinandola in particolare attorno a due figure, divenute epigoni molto esplicativi della logica del mondo in cui viviamo: l’individualismo consumistico e una economia fattasi tecnica finanziaria dematerializzata e perciò priva di solidarietà e di umanità.

I passi dell’esortazione dedicati a questi epigoni sono chiari e forti, oltre che numerosi; e se il tema continua quanto già più volte affermato durante il processo sinodale, ciò che risulta originale è lo stile con cui questi argomenti vengono trattati, stile espresso soprattutto attraverso degli aggettivi. Dell’individualismo si dice che è triste, produttore di tristezza conseguenza del consumismo superficiale e dell’isolamento a cui conduce; dell’economia si dice che produce inequità, da valutare non soltanto da un punto di vista tecnico morale, ma in un modo più allargato e globale, secondo una chiave antropologica generale: una simile logica disumanizza, come attestano in modo chiaro le denunce espresse contro il potere anonimo generato da questa cultura, e le forti disparità economiche e sociali a cui ormai ci ha abituato (e che perciò non solo non combattiamo, ma nemmeno osserviamo più: si tratta della globalizzazione dell’indifferenza che contraddistingue la nostra epoca) (EG 52-60).

Le tentazioni dell’evangelizzatore

Questa logica mondana è così pervicace da aver contagiato la stessa comunità ecclesiale. Come documenta la sezione dell’esortazione dedicata alle tentazioni degli operatori pastorali (EG 76-109), la tristezza frutto dell’individualismo consumista è capace di estendere il suo contagio anche dentro la Chiesa. Ecco di seguito un’antologia di testi che non ha bisogno di spiegazioni, vista la chiarezza del ragionamento espresso.

«Oggi si può riscontrare in molti operatori pastorali, comprese persone consacrate, una preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione, che porta a vivere i propri compiti come una mera appendice della vita, come se non facessero parte della propria identità. Nel medesimo tempo, la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione. Così, si possono riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore» (EG 78).

«Si sviluppa negli operatori pastorali un relativismo ancora più pericoloso di quello dottrinale. Ha a che fare con le scelte più profonde e sincere che determinano una forma di vita. Questo relativismo pratico consiste nell’agire come se Dio non esistesse, decidere come se i poveri non esistessero, sognare come se gli altri non esistessero, lavorare come se quanti non hanno ricevuto l’annuncio non esistessero» (EG 80).

«Il problema non sempre è l’eccesso di attività, ma soprattutto sono le attività vissute male, senza le motivazioni adeguate, senza una spiritualità che permei l’azione e la renda desiderabile. Da qui deriva che i doveri stanchino più di quanto sia ragionevole, e a volte facciano ammalare. Non si tratta di una fatica serena, ma tesa, pesante, insoddisfatta e, in definitiva, non accettata» (EG 82).

Il percorso attraverso i brani appena riproposti ci permette di cogliere una novità interessante dell’esortazione di Papa Francesco: con questa acuta analisi degli influssi e delle incursioni della logica mondana dentro la vita delle comunità cristiane e dei suoi operatori, il Papa rompe uno schema bipolare dialettico (fondato sull’articolazione noi-voi) che ha accompagnato più di un discorso sulla NE, e che ha finito spesso per collocare soltanto il mondo nella categoria degli accusati. Con questa sua analisi Papa Francesco sviluppa invece una forma di prossimità, che gli consente di esibire il contesto ecclesiale come il luogo esemplare in cui mostrare a tutti la bontà dei cammini di conversione.

Una Chiesa umile, che riconosce anche su di sé la forza tentatrice della logica mondana («Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali!»:EG 97), e che mostra gli sforzi per superare questa logica e purificarsi dalle sue conseguenze, può essere sicuramente più credibile quando chiama alla fede chi ha infiacchito la propria vita cristiana ha addirittura smesso di credere. È proprio questa logica di prossimità e di ascolto a rendere credibile qualsiasi azione di NE, di giudizio elaborato sul mondo e sulle sue logiche. Come testimoniano queste parole espresse alla prima persona singolare: «Se qualcuno si sente offeso dalle mie parole, gli dico che le esprimo con affetto e con la migliore delle intenzioni, lontano da qualunque interesse personale o ideologia politica. La mia parola non è quella di un nemico né di un oppositore. Mi interessa unicamente fare in modo che quelli che sono schiavi di una mentalità individualista, indifferente ed egoista, possano liberarsi da quel­le indegne catene e raggiugano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra» (EG 208).

Strumenti di evangelizzazione

 Questo tratto di denuncia, nel mostrare la prossimità degli evangelizzatori nelle loro debolezze e nel loro costante bisogno di conversione, fa da premessa ad un elemento di forte originalità della EG. Rispetto alla riflessione che l’ha preceduta, l’esortazione si impone per la sicurezza con cui sa focalizzare, tra i tanti possibili strumenti di evangelizzazione che il dibattito sulla NE ha messo in luce, quelli che a parere di Papa Francesco sono i più efficaci per l’annuncio del Vangelo oggi. Troviamo l’indicazione di questi strumenti nella terza e nella quarta sezione del testo, dedicate rispettivamente all’annuncio del Vangelo e alla dimensione sociale dell’evangelizzazione, laddove il Papa parla dell’omelia e dell’inclusione sociale dei poveri.

I due strumenti vengono presentati sia singolarmente che per la loro interazione. All’omelia è dedicata una sezione molto ampia (EG 135-159). È elogiata per la sua capacità cattolica di rivolgersi a tutti, in particolare ai più poveri, per la sua semplicità ed essenzialità, per la capacità di ascolto e di rimando dell’esperienza umana, ma soprattutto per la sua maternità: è in grado di mostrare il volto genuino della Chiesa, quello di essere madre. Ha la sua forza nel fondamento, ancorata alla Parola di Dio (EG 146), di cui è una personalizzazione, una illustrazione. Sull’esempio della predicazione di Gesù, è chiamata a far ardere i cuori, come ai discepoli di Emmaus (EG 142); nel presentare la verità, è chiamata ad accendere gli animi, esaltando il positivo e il bello piuttosto che sviluppando un semplice elenco di ciò che è dovuto.

In questa linea, la forza dirompente della predicazione – la forza che ne fa uno strumento indispensabile per l’evangelizzazione – è la sua capacità metaforica: l’omelia parla per immagini, comunica immagini che a loro volta si attivano e lavorano nel cuore degli uditori. « Uno degli sforzi più necessari è imparare ad usare immagini nella predicazione, vale a dire a parlare con immagini. A volte si utilizzano esempi per rendere più comprensibile qualcosa che si intende spiegare, però quegli esempi spesso si rivolgono solo al ragionamento; le immagini, invece, aiutano ad apprezzare ed accettare il messaggio che si vuole trasmettere. Un’immagine attraente fa sì che il messaggio venga sentito come qualcosa di familiare, vicino, possibile, legato alla propria vita. Un’immagine ben riuscita può portare a gustare il messaggio che si desidera trasmettere, risveglia un desiderio e motiva la volontà nella direzione del Vangelo. Una buona omelia, come mi diceva un vecchio maestro, deve contenere “un’idea, un sentimento, un’immagine”» (EG 157). Le parole di Papa Francesco ci svelano il segreto della sua predicazione (oltre che la sua efficacia), e l’importanza che egli riserva alla predicazione tra le azioni del ministero pastorale.

Ai poveri, al loro ascolto, alla condivisione della loro vita, l’esortazione dedica grandi pagine (EG 186-216). La motivazione è detta con chiarezza: «Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro la sua prima misericordia. […] Questa opzione – insegnava Benedetto XVI – « è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà ». Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci» (EG 198). Per questi motivi, prosegue il testo, la NE deve radicarsi nell’ascolto e nella condivisione della vita povera dei poveri: siamo chiamati non tanto ad immaginare azioni per alleviare la loro sofferenza, quanto piuttosto a condividere con loro il punto di forza che la loro condizione contiene, se vissuta nell’ottica della fede: la conoscenza del Cristo sofferente che permette loro una forma particolare di partecipazione al sensus fidei del popolo di Dio. Lascio ancora la parola al Papa: «Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro […] Il povero, quando è amato, è considerato di grande valore, e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia, da qualunque intento di utilizzare i poveri al servizio di interessi personali o politici» (ivi).

La capacità evangelizzatrice dei poveri risiede in questo tratto peculiare: i poveri sono chiamati a vivere per la loro condizione quell’unificazione della vita che noi possiamo permetterci di rimandare in continuazione, grazie alle distrazioni che la ricchezza e il consumismo ci forniscono; i poveri sono in grado di scoprire con naturalezza quel legame e quel rimando originario che la vita quotidiana di ogni persona contiene verso Dio e verso i fratelli che la condizione opulenta delle nostre società ci permette di spegnere, salvo poi condannarci a quell’individualismo triste così ben tratteggiato nell’esortazione. «L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (EG 200).

Siamo in grado di comprendere perciò come i due strumenti – l’omelia e l’opzione preferenziale per i poveri – per poter raggiungere l’obiettivo di una evangelizzazione efficace hanno bisogno di essere declinati assieme. È la condivisione col povero il luogo che ci può fornire le metafore vere per una predicazione che sappia aprire i cuori all’incontro con l’amore di Dio e alla conversione. «Senza l’opzione preferenziale per i più poveri, l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone» (EG 199), chiosa Papa Francesco, citando un suo predecessore, Papa Giovanni Paolo II.

L’annuncio del Vangelo come forma ecclesiae

Papa Benedetto XVI aveva assunto e rilanciato il concetto di NE per farne uno strumento di unificazione del recente passato ecclesiale e di focalizzazione della riforma di cui la Chiesa aveva bisogno: il primato all’annuncio del Vangelo, la necessità del legame tra annuncio e forma della Chiesa, la qualificazione anzitutto spirituale del processo di riforma da attivare. Papa Francesco, con la sua esortazione, mostra di sentirsi a suo agio in questo solco, collocandovi il suo magistero e continuando il percorso avviato, con alcune sue sottolineature originali.

Per meglio concentrarsi sull’obiettivo, il campo viene sgombrato da alcuni possibili equivoci. Volendo evitare che tutto il processo di riforma venga letto come una sorta di riallineamento interno alla Chiesa (con il rischio così di scaricare tutta la forza rigeneratrice della dinamica avviata dentro il contesto ecclesiale e non fuori, nel mondo!), viene depotenziato il contenuto di rievangelizzazione implicito nel concetto di NE. La stagione di evangelizzazione a cui è chiamata la Chiesa oggi non ha come obiettivo la costruzione di un giudizio; il processo evangelizzatore non va pensato come un voler rifare qualcosa che è stato fatto in modo parziale o deficitario, ma come una vera e propria rinnovata chiamata alla santità che Dio rivolge alla sua Chiesa, ad ogni battezzato. Così può essere compreso sia il depotenziamento del termine (l’utilizzo molto ridotto nel testo della parola “NE”), sia la continua attenzione a che l’evangelizzazione non venga ridotta alla trasmissione di una dottrina: «Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (EG 35).

Un secondo tratto di originalità dentro il solco tracciato dai suoi predecessori, Papa Francesco lo mostra attraverso un’inversione della dinamica attraverso la quale intende spronarci all’evangelizzazione. Con uno slogan potremmo esprimere questa inversione nel modo seguente: non più prima la grammatica poi la pratica, ma il suo contrario, ovvero prima la pratica poi la grammatica. Il compito evangelizzatore è così essenziale che ciò che conta è in primo luogo il fatto di lanciarsi in questa azione, senza aver paura di non aver ancora ben focalizzato tutte le condizioni necessarie a questo compito. È questo il senso del continuo invito che il Papa ci rivolge, perché usciamo verso le periferie: «preferisco una Chiesa accidentata – ci dice Papa Francesco –, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. […] Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta “Voi stessi date loro da mangiare” » (EG 49).

Con queste due sue sottolineature originali, la EG ottiene con efficacia l’impegno annunciato: collocare la Chiesa in quell’ottica evangelizzatrice che il Concilio Vaticano II le aveva assegnato come strumento dal quale desumere l’aggiornamento di cui necessitava, la forma da assumere per continuare ad essere strumento efficace di santificazione anche nel mondo attuale. Il Concilio, Papa Paolo VI, Papa Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI, Papa Francesco: il filo dell’evangelizzazione lega tutto il recente passato della Chiesa, ancorandola alla salda tradizione del Vangelo. L’annuncio del Vangelo come forma ecclesiae, era questa l’intuizione che stava alla basa del rilancio del concetto di NE; intenzione fatta propria e riespressa con originale efficacia dalla EG.

La Chiesa popolo di Dio: comunione e missione oggi

Il dono che Dio ci ha fatto mandandoci suo Figlio è una esperienza di umanizzazione senza precedenti e senza paragoni. Proprio grazie a Gesù, Dio insegna all’uomo chi è veramente l’uomo. Il Concilio Vaticano II ci ha richiamato questa fondamentale verità (cf GS 22), che la Chiesa italiana ha cercato di custodire come un tesoro, e di assumere come principio di trasformazione della propria figura e azione pastorale. In più di una occasione, di fronte alle sfide che, a partire dalla grande rivoluzione culturale degli anni settanta del ventesimo secolo, ci siamo trovati dinnanzi, come cristiani e come Chiesa abbiamo rinnovato l’impegno a rimanere fedeli all’uomo e al mondo. La nostra fedeltà a Dio ce lo chiedeva: solidali con l’uomo dentro la sua storia, per testimoniare il Vangelo di Gesù. Questo è stato il paradigma pastorale degli ultimi decenni della nostra Chiesa. È infatti qui la radice di quel nuovo umanesimo alla cui costruzione come cristiani vogliamo contribuire.

In questo impegno di doppia fedeltà, riecheggiano le parole dell’apostolo Paolo: alle comunità cristiane di ogni tempo è chiesto di essere stile e forma, matrice dentro la storia del modo di essere uomini a immagine del Padre di Gesù Cristo, docili allo Spirito che rende operosa la nostra fede e carica di potenza la nostra voce (1Ts 1, 6-8).

Questa fedeltà a Dio e al mondo, questa ricerca di un umanesimo per il nostro tempo, ci chiede, in questo momento di forte passaggio epocale non soltanto per il mondo ma anche per la stessa Chiesa, di dare maggiore energia e risorse a quell’attitudine di discernimento che accompagna la vita di ogni cristiano e di ogni comunità, come gli Orientamenti pastorali per questo decennio insegnano (CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, 7-8). Il discernimento, l’umile ricerca della volontà di Dio per noi e per il mondo, come sorgente del nuovo umanesimo, deve diventare lo stile non soltanto delle giornate del convegno ecclesiale, ma di tutta la vita quotidiana della Chiesa. Deve diventare il nostro sguardo sul mondo, un mondo che Dio non ha smesso di amare e di nutrire, un mondo che è incamminato verso il Regno. Non a caso si è parlato del prossimo convegno come di una occasione di “discernimento comunitario”.

«Discernimento comunitario» è un termine ricco di significato per la Chiesa italiana. Rimanda al percorso di aggiornamento avviato dopo il Concilio e indica la volontà di costruirsi come corpo non clericale e ancor meno sacrale, dove ogni battezzato è soggetto responsabile e tutti insieme siamo docili all’azione dello Spirito. Disegna soprattutto una Chiesa di piccoli che si vuole dentro il mondo, accanto ai più piccoli come loro voce e loro speranza, anima del desiderio di bene e di felicità che abita ogni persona.

Radicamento orante nella Parola di Dio, letta dentro la Chiesa alla luce della Tradizione; ricerca dei semi di verità sparsi dentro la storia degli uomini; interpretazione della società e della cultura alla luce della verità che l’evento di Cristo è per noi (che ci rende capaci di riconoscere le conseguenze del peccato nella nostra storia unite alle tracce dell’opera di redenzione): sono gli ingredienti di un discernimento comunitario, già invocato durante il Convegno ecclesiale di Palermo, che impegna ogni singola comunità a disporsi a un rinnovamento che favorisca la ricerca e la scoperta della bellezza di essere uomini e donne.

Discernere lo stile di Gesù nel quotidiano

Fare del discernimento il nostro stile ecclesiale non è impossibile, benché impegnativo. È necessario mettersi alla scuola di Gesù Cristo, rivisitando i tratti del suo ministero per le vie della Galilea. Come raccontano i vangeli sinottici, il ministero quotidiano di Gesù si compone di pochi ma essenziali ingredienti, che lo vedono concentrato sull’unica cosa necessaria, come egli stesso afferma («mio cibo è fare la volontà del Padre»: cf. Gv 4,34). La sua tipica giornata, come ad esempio a Cafarnao, si struttura su poche essenziali operazioni: dedicarsi al legame intimo con il Padre nella preghiera; non disperdere il primato dell’annuncio del Regno; confermare con autorità questo annuncio, grazie alla cura delle persone (il perdono, la guarigione, la rivelazione del volto misericordioso del Padre); non lasciarsi imprigionare dall’ordinarietà, ma avere il coraggio di ripartire, spinto dall’urgenza della missione. Implicitamente un simile stile disegna un percorso di umanità nuova, un modo buono e bello di essere uomini e donne oggi, che ha e dà sapore.

Le operazioni della vita quotidiana di Gesù sono state richiamate da papa Francesco nella Evangelii gaudium. Sull’esempio di Gesù, e nella convinzione di riattualizzarne lo stile, il pontefice immagina una Chiesa in uscita, capace di abitare il quotidiano delle persone e, grazie allo stile povero e solidale, di rinnovare la storia di ciascuno, di ridare speranza, di riaprire le nostre vite morte alla gioia della resurrezione e della vita nuova; in altre parole, pronta a fare della vita quotidiana il luogo dell’incontro e dell’esperienza della misericordia di Dio.

Nella stessa linea, al Convegno di Verona la Chiesa italiana scelse di mettere al centro della propria pastorale la persona, con gli ambiti che costituiscono la sua identità. Già allora si parlò di «Chiesa missionaria»: per non rimanere chiusi nelle nostre cose, impegnati a ragionare della pastorale solo in termini produttivi ed efficientistici (immaginando come implementare la nostra liturgia, la nostra catechesi e il nostro assistenzialismo caritativo), la Chiesa italiana decise di mettere al centro della sua missione – a tutti i livelli in cui questa è esercitata, dalla dimensione più ampia e universale sino alla più piccola cellula comunitaria – la persona umana. In questi anni si è cercato di pensare a ciò che la configura, in senso attivo e passivo, toccando gli ambiti della cittadinanza, della fragilità, degli affetti, del lavoro, della festa, dell’educazione e della trasmissione della fede.

Luoghi, frontiere, periferie

Assunti sempre più come il nucleo della pratica ecclesiale, questi ambiti oggi sono diventati luoghi, ovvero spazi dell’umano dentro i quali imparare ad annunciare il Vangelo, secondo la strategia della contaminazione e del meticciato: siamo, infatti, uomini e donne che condividono con altri la sete di gioia e di felicità, le speranze e le paure; con loro costruiamo i legami che esprimono la nostra identità, ciò che crediamo, i valori che vogliamo vivere; e dentro questo intreccio mettiamo a prova la nostra fede, spendiamo la nostra tradizione, viviamo la Bella Notizia annunciataci nella Pasqua di Cristo Gesù.

Con la crescente complessità del mondo globalizzato, con le nuove forme di ingiustizia che allargano il divario tra ricchi e poveri, con lo strapotere del sistema tecnico e la crisi delle istituzioni che sostengono la vita insieme (dalla scuola alla famiglia) i luoghi hanno perso molte rigidità, ma anche solidità e unità, e sono diventati più permeabili, vulnerabili, sempre più sfidati e messi in questione. Si può dire che i luoghi sono diventati frontiere: linee di incontro/scontro (tra culture, tra visioni del mondo dentro una stessa cultura). La famiglia, per esempio è attaccata da tanti fronti, e non sono più un’eccezione i bambini che vivono tra due case, costretti a fare i conti con complesse geografie relazionali.

Come porsi rispetto a questi cambiamenti? Le frontiere si possono difendere, cercando di costruire muri. Ma possono essere anche soglie, confini, luoghi di incontro e dialogo, senza il quale rischiano di trasformarsi in periferie: abbandonate, dimenticate. Il movimento allora non è quello della chiusura difensiva, ma dell’uscita. Senza paura di perdere la propria identità, ma anzi facendone dono ad altri. Come dice Papa Francesco: «Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada» (Evangelii Gaudium, 46). «Tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (Evangelii Gaudium, 20).

In questo modo, temi e contesti come quelli della famiglia, dell’educazione, della scuola, dell’ambiente, della città, del lavoro, dei poveri e dell’emarginazione, dell’universo digitale e della rete, sono diventati quelle “periferie esistenziali” che si impongono alla Chiesa italiana come una priorità dentro la quale vivere quello stile di discernimento che le consenta di portare a termine quella riforma missionaria delle proprie azioni pastorali, invocata ormai da parecchi decenni. Per dare concretezza ad un simile discernimento, è utile strutturarlo attorno a cinque operazioni logiche, suggeriteci da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium; cinque operazioni che consentono al cristianesimo di contribuire a quel nuovo modo di essere uomini e donne dentro la complessità della nostra epoca. Le cinque operazioni sono: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare.

Uscire

L’insistenza con cui papa Francesco invoca una Chiesa «in uscita» s’intreccia con il cammino compiuto in Italia sulla strada della conversione pastorale e di una prassi più missionaria:

La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. […] La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni lamentose né allarmiste. Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti o incompiuti. Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 24

Sorge da qui la domanda: come mai, nonostante un’insistenza così prolungata sulla missione, le nostre comunità faticano ad assumere una simile prospettiva? Il rischio di un’inerzia strutturale è sempre in agguato; si possono aiutare le nostre comunità a far sì che l’obiettivo dal quale far dipendere le loro azioni non venga predeterminato dalle tante istituzioni create al servizio della pastorale, quanto piuttosto da un attento discernimento dei desideri dell’uomo (che giacciono anche dentro di noi credenti) e dalla voglia di farli germinare, per godere insieme della gioia del Vangelo. Forse è meglio uscire da tanti progetti, frutto dei frammenti in cui si è disarticolata la nostra pastorale o di un esercizio progettuale ideologico, per assumere un obiettivo più unitario e aderente al vissuto.

Liberare le nostre strutture dal peso di un futuro che abbiamo già scritto, per aprirle all’ascolto delle parole dei nostri contemporanei, che risuonano anche nei nostri cuori: questo è l’esercizio che vorremmo compiere al Convegno di Firenze. Ascoltare lo smarrimento della gente, di fronte alle scelte drastiche che la crisi globale sembra imporre; raccogliere, curare con tenerezza e dare luce ai tanti gesti di buona umanità che pure in contesti così difficili sono presenti, disseminati nelle pieghe del quotidiano. Offrire strumenti che diano lucidità ma soprattutto serenità di lettura, convinti che anche oggi i sentieri che Dio apre per noi sono visibili e praticati.

I ragazzi, i giovani, le famiglie, da pilastri sui quali si poggiava la nostra azione ecclesiale sono progressivamente diventati lo spazio attraverso il quale la missione è entrata nel ritmo quotidiano delle nostre comunità. Come far sì che i cambiamenti demografici, sociali e culturali con i quali la Chiesa italiana è chiamata a misurarsi divengano l’occasione per sperimentare la capacità del messaggio cristiano di aprire nuove strade per l’annuncio della buona notizia della salvezza donataci dal Dio di Gesù Cristo?

Annunciare

Le tante povertà, antiche e nuove, che la crisi evidenzia ancor di più, si condensano nella povertà che Gesù constatava con preoccupazione: la difficoltà ad ascoltare il Vangelo della misericordia (gli apparivano «come pecore senza pastore», ricorda Mt 9,36).

La gente necessita di parole che partendo da noi, dal semplice quotidiano, indirizzino lo sguardo e i desideri a Dio. Occorre imparare a vivere la fede come testimonianza argomentata non meno che come testimonianza vissuta. Con il suo personale tratto, i suoi gesti e le sue parole papa Francesco mostra la forza e l’agilità di questa forma e di questo stile testimoniali: quante immagini e metafore provenienti dal Vangelo egli riesce a comunicare, soddisfacendo la ricerca di senso, accendendo la riflessione e l’autocritica che apre alla conversione, animando una denuncia che non produce violenza ma permette di comprendere la verità delle cose.

Le nostre Chiese sono impegnate da decenni in un processo di riforma dei percorsi di iniziazione e di educazione alla fede cristiana. Il Convegno di Firenze è il luogo in cui verificare quanto siamo stati capaci di rinnovare l’annuncio: forme di nuova evangelizzazione e di primo annuncio; capacità di sviluppare una proposta della fede cristiana in un contesto pluriculturale e plurireligioso come l’attuale; intuizioni e idee per prendere la parola in una cultura mediatica e digitale che spesso si fa così artificiale da svuotare di senso anche le parole più dense di significato, come lo stesso termine “Dio”.

Dobbiamo leggere come segno di fecondità della fede il fatto che tante comunità, pur talvolta in situazioni di provvisorietà e di povertà, mostrino desiderio nell’annuncio, fedeltà nella celebrazione, disponibilità d’accoglienza quotidiana dei poveri. Questa realtà ci sprona a ridare forza e continuità ai nostri cammini di conversione attraverso passi semplici e concreti, piuttosto che puntare a un ideale astratto di comunità. […] Questo stile ecclesiale di annuncio e di testimonianza della fede – stile da vivere sia come singoli sia come comunità – possiede alcuni tratti fondamentali: l’attitudine al dialogo e all’ascolto delle persone nelle diverse situazioni di vita; la capacità di saper motivare in modo argomentato le proprie scelte e i propri valori; il desiderio di professare in modo pubblico la propria fede, senza paure e inutili pudori; la ricerca attiva di momenti di comunione vissuta, nella celebrazione, nella preghiera e nello scambio fraterno; la disponibilità – come adulti – ad iniziare piccoli e grandi alla fede e ad accompagnarne la crescita nelle giovani generazioni; la predilezione per i poveri e gli esclusi. CEI, Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, n. 12

Il convegno di Firenze è il luogo per verificare quanto le nostre comunità cristiane stanno rivedendo la propria forma per essere sempre comunità di annuncio del Vangelo: quanto sono capaci di motivare in modo argomentato le proprie scelte di vita e i propri valori; quanto sono in grado di generare un desiderio di professare in modo pubblico la propria fede, senza paure e falsi pudori; quanto sanno accendere in ogni cristiano la ricerca attiva di momenti di comunione vissuta, nella preghiera e nello scambio fraterno; quanto sanno infondere una predilezione naturale per i poveri e gli esclusi e una passione per le giovani generazioni e per la loro educazione.

Abitare

 Il nostro cattolicesimo non ha mai faticato a vivere l’immersione nel territorio attraverso una presenza solidale gomito a gomito con la propria gente. Addirittura, esso è conosciuto nel mondo per questa sua peculiare “via popolare”. Il passato recente ci consegna un numero considerevole di istituzioni, strutture, enti, opere assistenziali ed educative, che hanno dato concretezza all’annuncio. Nelle veloci trasformazioni sociali e culturali, e in qualche caso a seguito di scandali, corriamo il rischio di perdere questa presenza capillare, capace di una forte presa simbolica e comunicativa. Occorre un tenace impegno per continuare a essere una Chiesa di popolo nelle trasformazioni demografiche, sociali e culturali che il nostro Paese attraversa (con la fatica a generare e ad educare i figli; con un’immigrazione massiva che impone importanti metamorfosi al tessuto sociale; con una trasformazione degli stili di vita che ci allontana dalla condivisione con i poveri e indebolisce i legami sociali).

L’impegno, dunque, non consiste principalmente nel moltiplicare azioni o programmi di promozione e assistenza; lo Spirito non mette in moto un eccesso di attivismo, ma un’attenzione rivolta all’altro, «considerandolo come un’unica cosa con se stesso». Quando è amato, il povero «è considerato di grande valore»; questo differenzia l’opzione per i poveri da qualunque intento di utilizzarli per interessi personali o politici. Solo in questa vicinanza cordiale possiamo accompagnarli adeguatamente nel cammino di liberazione. Soltanto questo renderà possibile che «i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come “a casa loro”. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno?». Senza l’opzione preferenziale per i più poveri, «l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone» (EG 199).

Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro «considerandolo come un’unica cosa con se stesso». […] Il povero, quando è amato, «è considerato di grande valore», e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia, da qualunque intento di utilizzare i poveri al servizio di interessi personali o politici. Solo a partire da questa vicinanza reale e cordiale possiamo accompagnarli adeguatamente nel loro cammino di liberazione. Soltanto questo renderà possibile che «i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come “a casa loro”. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno?». Senza l’opzione preferenziale per i più poveri, «l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone. Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 199

In questo quadro, l’invito di papa Francesco a essere una Chiesa povera tra i poveri assurge al ruolo di indicazione programmatica. Questo richiamo, infatti, non è come gli optional di un’automobile, la cui assenza non ne muta sostanzialmente utilità e funzionalità. L’invito del pontefice, invece, radicandosi nella predicazione esplicita di Gesù ai piccoli e ai poveri, inveratasi infine nel ribaltamento della crocifissione e della risurrezione, connota la Chiesa nel suo intimo essere e nel suo agire. Il Convegno di Firenze è l’occasione per rileggere una storia di incarnazione e di condivisione e per disegnarne il futuro, tenendo conto delle sfide che i mutamenti in atto ci pongono innanzi. Negli anni ’80, proprio per dare futuro a questa tradizione di una Chiesa radicata tra i poveri, i vescovi italiani lanciarono un imperativo: “ripartire dagli ultimi”. Come tenere fede a questa promessa oggi? Come dare futuro alle tante tradizioni di carità e di condivisione con i più poveri che la nostra Chiesa ha saputo inventare?

Educare

In questo decennio la Chiesa italiana ha impegnato le comunità cristiane ad aggiornare l’azione pastorale, assumendo come punto prospettico l’educazione, divenuta una vera e propria emergenza: il mondo digitalizzato e artificiale apre prospettive inedite non soltanto sul fronte della ricerca ma anche nelle sue trasposizioni tecniche che modificano le abitudini quotidiane; la cultura si vuole affrancare in modo agile e disinvolto da qualsiasi tradizione e dai valori da esse veicolati, ritenendoli superati e obsoleti; l’urbanizzazione ridisegna gli spazi e i ritmi della vita umana, modificando le forme principali dei legami sociali e ambientali.

Rimane utile e significativa una pagina degli orientamenti pastorali della CEI per il decennio in corso, che citiamo in un passaggio saliente: «In una società caratterizzata dalla molteplicità di messaggi e dalla grande offerta di beni di consumo, il compito più urgente diventa, dunque, educare a scelte responsabili. Di fronte agli educatori cristiani, come pure a tutti gli uomini di buona volontà, si presenta, pertanto, la sfida di contrastare l’assimilazione passiva di modelli ampiamente divulgati e di superarne l’inconsistenza, promuovendo la capacità di pensare e l’esercizio critico della ragione» (Educare alla vita buona del Vangelo 10).

La molteplicità dei riferimenti valoriali, la globalizzazione delle proposte e degli stili di vita, la mobilità dei popoli, gli scenari resi possibili dallo sviluppo tecnologico costituiscono elementi nuovi e rilevanti, che segnano il venir meno di un modo quasi automatico di prospettare modelli di identità e inaugurano dinamiche inedite. La cultura globale, mentre sembra annullare le distanze, finisce con il polarizzare le differenze, producendo nuove solitudini e nuove forme di esclusione sociale. […] Queste condizioni, in cui si colloca oggi il percorso formativo, se comportano maggiore fatica e rischi inediti rispetto al passato, accrescono lo spazio di libertà della persona nelle proprie decisioni e fanno appello alla sua responsabilità. Ciò è di fondamentale importanza anche per la scelta religiosa, perché al centro della relazione dell’uomo con Dio c’è la libertà. In una società caratterizzata dalla molteplicità di messaggi e dalla grande offerta di beni di consumo, il compito più urgente diventa, dunque, educare a scelte responsabili. Di fronte agli educatori cristiani, come pure a tutti gli uomini di buona volontà, si presenta, pertanto, la sfida di contrastare l’assimilazione passiva di modelli ampiamente divulgati e di superarne l’inconsistenza, promuovendo la capacità di pensare e l’esercizio critico della ragione. CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, 10.

Il primato della relazione, il recupero del ruolo fondamentale della coscienza nella costruzione dell’identità della persona umana, la necessità di approntare nuovi percorsi pedagogici per la maturazione di persone adulte oggi, divengono le scelte da fare in un simile frangente, affiancando e dando energie alle tradizionali agenzie educative (famiglia e scuola), che si vedono indebolite e in profonda trasformazione. Vista l’entità del mutamento innescatosi, un tale compito chiede la ricostruzione dalle fondamenta delle grammatiche educative. In questo preciso senso l’educazione occupa uno spazio centrale nella nostra riflessione sull’umano e sul nuovo umanesimo. Il prossimo Convegno ci impegna non soltanto nella comprensione attenta e analitica delle ricadute di queste trasformazioni sulla nostra figura e sulla nostra identità ecclesiali (il concetto stesso di vita umana, la configurazione della famiglia e il senso del generare, il rapporto tra le generazioni e il senso della tradizione, il rapporto con l’ambiente e l’utilizzo delle risorse d’ogni tipo, il bene comune, l’economia e la finanza, il lavoro e la produzione, la politica e il diritto), ma anche sulle loro interconnessioni.

Educare è un’arte: occorre che ognuno di noi, immersi in questo contesto in trasformazione, la apprenda nuovamente, ricercando la sapienza che ci consente di vivere in quella pace tra noi e con il creato che non è solo assenza di conflitti, ma tessitura di relazioni profonde e libere. Il Convegno è l’occasione perché le nostre comunità si radichino in uno stile che esprima il nuovo umanesimo: essere capaci, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali ed esposte al veloce consumo, di costruire spazi in cui tali relazioni scoprano la gioia della gratuità, solida e duratura, cementate dall’accoglienza e dal perdono reciproco; abitare quelle frontiere in cui la sterilità della solitudine e dell’individualismo imperanti fiorisce in nuova vita e in una cultura della generatività.

Trasfigurare

 Oltre alla carità (anzi a suo sostegno), il miglior luogo per la testimonianza della fede cristiana sono delle comunità capaci di mostrare quanto da quella fede sono nutrite e trasformate, grazie alla vita liturgica e sacramentale, e grazie alla preghiera. Esiste un rapporto intrinseco tra fede e carità, entrambe sono intimamente unite. Senza la preghiera e i sacramenti la carità non avrebbe efficacia, perché mancherebbe della grazia che sostiene la testimonianza dei cristiani. Riascoltando le parole del Concilio Vaticano II, «la liturgia, mediante la quale, soprattutto nel divino sacrificio dell’eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e l’autentica natura della vera Chiesa» (SC 2).

È la vita sacramentale e di preghiera che ci permette di esprimere il di più della nostra fede, lo specifico dell’umanesimo che come cristiani intendiamo vivere. La via dell’umano inaugurata e scoperta in Cristo Gesù intende non soltanto imitare le sue gesta e celebrare la sua vittoria, quasi a mantenere la memoria di un eroe, relegato però in un’epoca ormai lontana. La via della pienezza umana mantiene in lui il compimento, perché prosegue la sua stessa opera, nella convinzione che lo Spirito che lo guidò è in azione ancora nella nostra storia, per aiutarci ad essere già qui uomini e donne come il Padre ci ha immaginato e voluto nella creazione. Papa Francesco, in alcune pagine di Evangelii gaudium (n. 180), richiama questo disegno cosmico, ricordando che il nostro compito principale consiste nel conservare e diffondere senza fine la gioia di Cristo agli uomini. Come il vino alle nozze di Cana, questa gioia è il frutto della nostra fedeltà a Dio e al Regno che Lui stesso costruisce. Una fedeltà vissuta e irrobustita nella liturgia e nella preghiera.

La proposta del Vangelo non consiste solo in una relazione personale con Dio. E neppure la nostra risposta di amore dovrebbe intendersi come una mera somma di piccoli gesti personali nei confronti di qualche individuo bisognoso, il che potrebbe costituire una sorta di “carità à la carte”, una serie di azioni tendenti solo a tranquillizzare la propria coscienza. La proposta è il Regno di Dio (Lc 4,43); si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali. Cerchiamo il suo Regno: «Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Il progetto di Gesù è instaurare il Regno del Padre suo; Egli chiede ai suoi discepoli: «Predicate, dicendo che il Regno dei cieli è vicino» (Mt 10,7). Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 180

La logica delle Beatitudini può essere compresa solo dentro questa cornice: è la potenza dei sacramenti che ci permette di assumere la nostra condizione umana e presentarla come offerta gradita a Dio, vedendocela così restituita in un modo più profondo e con una capacità di condivisione e solidarietà trasfigurate e potenziate. Il Convegno è una tappa per verificare la qualità della presenza cristiana nella società, i suoi tratti peculiari, la custodia della sua specificità. A noi, popolo delle beatitudini che si radica nell’orazione di Gesù, è chiesto di operare nel mondo, sotto lo sguardo del Padre, proiettandoci nel futuro mentre viviamo il presente con le sue sfide e le sue promesse, con il carico di peccato e con la spinta alla conversione, che esso porta con sé dal passato.

Il convegno sarà anche il luogo per rileggere assieme i grandi passi compiuti in questi dopo il Concilio, per rendere le nostre liturgie capaci di esprimersi e di parlare dentro la cultura di oggi. quanto le nostre celebrazioni domenicali sono capaci di portare il popolo ancora numeroso che le celebra a vivere questa operazione di trasfigurazione della propria vita e del mondo? La Conferenza Episcopale Italiana ha appena pubblicato un testo sull’annuncio e la catechesi: Firenze sarà l’occasione per fare il punto sul nostro modo di introdurre ed educare alla fede un popolo che si fa sempre più ricco e diverso per provenienza, storia, culture.

Più in generale, Firenze sarà il contesto in cui confrontarci con questa domanda: quanto l’attitudine filiale di Gesù col Padre suo – espressa nel suo stile di preghiera e nella sua consegna a noi nel sacramento dell’Eucaristia –, quanto lo stile della cura del Maestro di Nazareth, lo stile della misericordia di Dio Padre operante in Gesù stesso, è diventato l’ingrediente principale del nostro essere uomini e donne di questo mondo?


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