Da Clara Zampaglione, responsabile per la Caritas Italiana ad Haiti.
Haiti non ce la fa più. È al collasso. Quante volte frasi simili sono state ripetute nei racconti e nei reportage giornalistici degli ultimi anni, per descrivere lo sfortunato paese che, in mezzo al mar dei Caraibi, si divide con la più estesa e meno disastrata Repubblica Domenicana la grande isola di Hispaniola? Le occasioni per registrare il disastro e vaticinare il peggio sono state ricorrenti. Soprattutto nell’ultimo decennio. Ma nulla sembra cambiare. Anzi, non sembra esserci limite al peggio. E quando si ritiene che il paese nel suo complesso abbia toccato il fondo, ecco che il fondo diventa sempre più profondo. E Haiti continua a precipitare.
Negli ultimi cinque mesi, da quando a giugno le bande armate si sono impossessate di interi quartieri a sud di Port-au-Prince, obbligando più di 17 mila persone a lasciare le proprie abitazioni e a vivere da sfollati in campi di accoglienza allestiti dalle Nazioni Unite, la capitale vive una emergenza umanitaria dietro l’altra. Il 7 luglio il brutale assassinio del presidente Jovenel Moïse ha lasciato il paese nel caos, aprendo la strada alla proliferazione incontrollata delle bande armate, non solo al sud, ma un po’ ovunque nella capitale. Poi un terremoto di magnitudo 7,2 ha colpito il sud del paese, il 14 agosto; provocando più di 2.200 vittime e lasciando più di 650 mila persone in stato di urgente bisogno umanitario.
Il business dei sequestri. E non solo
In questo clima di incertezza ed emergenza protratte, le bande armate vedono un terreno fertile per i loro affari criminali, e stanno estendendo le loro spire e facendo crescere il loro capitale finanziario con il business dei sequestri di persona. Insieme al capitale, cresce il loro potere. Al momento, non esiste ad Haiti un’istituzione in grado di contrastare questi criminali. Nelle loro mani sono finiti anche 16 missionari statunitensi e un canadese, tra cui 5 bambini, prelevati in ottobre da una delle più violente gang che governano la periferia della capitale, i 400 Mawozo; di questi rapiti non è ancora dato sapere nulla.
Ma il business dei sequestri non è il solo a dare potere alle bande. C’è anche il controllo delle zone di accesso delle principali risorse del paese, soprattutto frontiere e porti. Da settimane, infatti, alla crisi di sicurezza si è aggiunta la crisi per la mancanza di carburante, a causa del blocco dei porti di accesso da parte delle bande armate, che chiedono pedaggi molto salati e adesso persino le dimissioni del primo ministro, Ariel Henry. Il paese è ovunque carente di carburante. E ad Haiti tutti i servizi principali – ospedali, scuole, ripetitori delle telecomunicazioni, supermercati –, oltre all’intero sistema di trasporti, funzionano quasi esclusivamente con generatori alimentati da diesel. La carenza di carburante, per un paese già estremamente fragile, significa dunque stallo totale dei servizi di base e, peggio, progressiva chiusura degli ospedali. Proprio in un momento in cui una nuova ondata di Covid-19 sta colpendo l’isola, facendo registrare più contagi che mai.
Frustati sul Rio Bravo
Il paese centramericano sta insomma spegnendo i motori che lo alimentano. E con essi la speranza della popolazione. In questo triste scenario, si colloca un’altra grave crisi umanitaria: i rimpatri forzati di migliaia di haitiani dagli Usa (e da altri paesi delle Americhe). Sono più di 11 mila gli haitiani rimpatriati, dal 19 settembre alla metà di novembre, da Messico e Stati Uniti. E continuano ad arrivarne almeno un centinaio al giorno. Donne e bambini inclusi, vengono forzatamente rimandati in un paese che sta vivendo molteplici gravi crisi umanitarie. I migranti rimpatriati sono estremamente vulnerabili, traumatizzati e debilitati dal lungo viaggio, quindi maggiormente esposti alla violenza e all’instabilità socio-politica dell’isola.
Non riesco ad asciugare le lacrime. Ho trascorso alcuni
giorni in carcere, dove non abbiamo il trattamento
degli altri detenuti: niente doccia, né cibo, né coperte
«Mi sento devastata – testimonia una donna, dapprima emigrata in Cile e ora da poco deportata dagli Usa –. Alla mia età non avrei dovuto rischiare la vita in un viaggio così difficile. La vita per gli haitiani in Cile non è così facile come la gente potrebbe pensare; molti sono i limiti nell’accesso ai servizi, l’integrazione è difficile a causa dei rigidi principi delle leggi migratorie, si arrivano a trascorrere 4 anni senza documenti legali per operare… Dal Cile ho allora intrapreso il viaggio verso gli stati Uniti, nella speranza di dare un futuro migliore ai miei tre figli. Ma non pensavo sarebbe stato così terribile. Nella foresta ho visto cadaveri, persone morte per le strade… Non riesco ancora ad asciugare le lacrime. Ho trascorso anche alcuni giorni in carcere, dove noi migranti non abbiamo avuto lo stesso trattamento degli altri detenuti: niente doccia, niente cibo, i bambini tremavano per il freddo, niente coperte, solo un piccolo materasso per dormire. Sono indignata…».
E indignata è anche l’intera comunità internazionale per il trattamento riservato ai migranti haitiani. A settembre, respinti alla frontiera Usa, molti dovettero riparare per giorni sotto un viadotto al confine con il Messico. Inoltre vengono frustati come animali dai ranger a cavallo lungo le sponde del fiume Rio Bravo, che separa gli Usa dal Messico, la cui traversata è costata la vita a numerosi migranti. « Mia moglie… la madre di mia figlia… è annegata davanti ai miei occhi, mi sento impotente. Non ho potuto salvarla perché ho dovuto nuotare almeno un minuto prima di recuperare mia figlia, anche lei travolta dalla corrente… – racconta agli psicologi dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni https://italy.iom.int/ un giovane di 31 anni, che tiene stretta la sua bambina tra le braccia –. Ho trovato il coraggio di raccontare quando ho sentito che l’Oim aveva uno psicologo, ho detto che finalmente sarei stato in grado di parlare, di raccontare. Quando a settembre avevo chiamato la mia famiglia ad Haiti per dire loro della tragedia, non sono riuscito a farlo, un amico haitiano ha preso il telefono per parlare al posto mio. Non so come guarirò da tutto questo, non posso nemmeno parlarne. Questa tragedia mi lascia senza forze, mi sento in colpa; non potrò mai più guardare i genitori di mia moglie negli occhi…».
Donne, le più vulnerabili
Una volta arrivati sull’isola i migranti vengono subito accolti dagli operatori dell’Oim (organizzazione delle Nazioni Unite) e da altre organizzazioni umanitarie, che hanno installato le loro postazioni nell’aeroporto di Port au Prince, offrendo alle centinaia di persone che arrivano quotidianamente assistenza psicologica, un pasto caldo, un kit igienico e una quantità di denaro in cash per aiutarli a ripartire dopo il lungo viaggio. Inoltre aiutano i migranti di ritorno a stabilire contatti con le famiglie rimaste ad Haiti, o li aiutano a rintracciare un conoscente che li possa sostenere nel processo di reintegrazione. «Molti, in effetti, hanno vergogna a risentire la famiglia; per loro il rientro è un fallimento. Prima erano quelli che inviavano le rimesse ad Haiti, ora sono loro ad aver bisogno di aiuto», racconta Giuseppe Loprete, capomissione Oim ad Haiti.
La vulnerabilità di chi è costretto al rimpatrio è una condizione generalizzata. Ma ritornare in un paese come Haiti, in un momento così difficile, è tremendo soprattutto per le donne sole con figli a carico. Esse sono facilmente esposte a ogni genere di violenza, senza una rete di supporto che le protegga.
Caritas ha promosso una campagna contro la violenza
di genere. Un impegno complementare a quello per
la ricostruzione e la promozione di salute e istruzione
La violenza di genere, ad Haiti, non è cosa nuova. Le donne haitiane sono socialmente ed economicamente la componente più esposta e marginale della società, i soggetti che subiscono maggiormente le conseguenze dei disastri naturali e sociali. Questo vale a maggior ragione in contesti disgregati come i campi di accoglienza, che accolgono le famiglie sfollate per le numerose crisi che si susseguono nel paese, dove si vive spesso ammassati in piccole tende, senza servizi igienici né illuminazione. Ma lo stesso ambiente domestico, dove si vive in condizioni di grande promiscuità, spesso in contesti di bassa scolarizzazione, è abitualmente teatro di violenze e abusi, perpetrati anche nei confronti di bambine e adolescenti.
L’educazione è un fattore determinante, che ha un peso notevole sull’incidenza della violenza di genere, in un contesto culturale dove l’abuso non è ancora percepito come tale. Per questo sono numerose le campagne di sensibilizzazione rivolte a donne e uomini; a volte basta solo essere coscienti del proprio spazio intimo, perché questo non venga invaso. È anche importante rafforzare la capacità delle istituzioni haitiane; l’assenza di un sistema codificato di punizioni rende infatti le donne ancora più vulnerabili.
Sono molte per fortuna le organizzazioni che operano con finalità di prevenzione e a tutela delle vittime, soprattutto nelle scuole, promuovendo servizi integrati e la formazione di personale specializzato, al fine di assicurare la salute psicologica dei bambini e per far fronte ai molti casi di violenza sessuale e di genere.
Anche Caritas ha promosso all’interno della sua rete una campagna di sensibilizzazione contro la violenza di genere, sostenendo progetti volti alla formazione di personale specializzato nell’assistenza psicologica dei più vulnerabili. Un impegno ulteriore, a complemento del grande impegno profuso in diverse aree del paese per la ricostruzione (post-terremoti e tifoni) e per la promozione della salute, dell’istruzione e della microimprenditoria. La rete di progetti e servizi si fa sempre capillare: piccole gocce, in un oceano di bisogni, che a volte sembra più profondo e tumultuoso di quello d’acqua che circonda Hispaniola.
Aggiornamento Caritas Italiana (novembre 2021)