La tragedia di Lampedusa - La Vita del Popolo - CARITAS TARVISINA

La tragedia di Lampedusa – La Vita del Popolo

Basta! Basta ipocrisia, prima di tutto. Basta lacrime troppo brevi, che non giungono nemmeno a sfiorare cuori inariditi. I nostri, il mio. Quanti morti sono necessari per un giorno di lutto nazionale? Più di ventimila si stima ne abbia seppellito finora il Mediterraneo: sono sufficienti ad anni interi di lutto. Purché si capisca che questi morti ci riguardano. Perché fuggivano da guerre e conflitti combattuti anche con le armi che produce l’Italia, quinto paese mondiale per questo tipo di industria. Perché fuggivano da carestie procurate da un’economia distorta che affama due terzi dell’umanità per far sì che il resto possa permettersi di sprecare cibo e risorse…

E, se siamo cristiani, non chiediamoci dove sia Dio quando cinquecento persone vanno a fondo, e ne annegano trecentocinquanta: dalla morte in croce di Gesù di Nazareth ormai dovremmo saperlo, Dio è lì ad annaspare, ad annegare, a morire di crepacuore perché non riesco a salvare mio figlio dal fuoco e dall’onda, dalla trappola mortale di una stiva che si immerge come pietra! Dio è le mani di quei pescatori che pescano uomini e donne ancora vivi e non si risparmiano per salvarne ancora uno, ancora una… Dio è nella determinazione della sindaca di Lampedusa che una volta ancora non lascia scampo ai politici di turno: “Siamo costretti ad essere campioni dell’emergenza, non dell’accoglienza!”

Basta con l’ipocrisìa di chi continua ad esasperare le paure della gente: nessuno chiede di accogliere in Italia tutti i rifugiati della terra!

Ma se la questione non è aprire le porte all’invasione del sacro suolo nazionale o allo sperpero delle residue possibilità economiche ed occupazionali, allora sarebbe ben tempo di ragionare su modi sostenibili per affrontare e governare situazioni che si profilano come strutturali: sia la migrazione per lavoro, sia quella, ancor più tragica ed urgente, di fuga da conflitti o da disastri naturali. Un’economia da riformare, per riportarla a servire la dignità di tutti e non l’ingordigia di qualcuno, una pace per cui impegnarsi ben oltre i cosiddetti “interventi umanitari”.

E allora, davvero basta con l’ipocrisia. Sono situazioni ormai strutturali, quelle del movimento di centinaia e centinaia di persone dalle sponde sud del Mediterraneo, ma anche dalle frontiere est dell’Europa: cosa pretendiamo, con situazioni di guerra e di conflitto a due passi, come la Siria, come l’instabilità dell’Egitto o della Libia post “pacificazione”? E la Somalia, l’Eritrea,… E vi sono interventi possibili, dell’Italia e dell’Europa: se riesce difficile (ma forse non del tutto impensabile) compiere la scelta della Germania, che crea corridoi e accessi umanitari organizzati, è davvero improponibile un monitoraggio via satellite o via radar, in grado di avvisare per tempo di carrette del mare precarie che mettono a rischio i loro carichi di umanità? Certo, poi dovremo decidere se soccorrerli o lasciarli morire… E’ davvero improponibile una flessibilità nel regime dei visti, una maggior rapidità nell’esame delle domande di asilo, di protezione umanitaria? Una legge che non riduca chi fugge dall’inferno a criminale perché clandestino?

Ma soprattutto, basta ipocrisia quando ci trinceriamo dentro una posizione assassina: “io non ci posso fare niente!” Assassina perché lascia l’altro, l’altra alla mercé della morte, o di una vita peggiore della morte, assassina perché uccide la mia stessa umanità.

Almeno tre cose le possiamo fare, come cristiani e come cittadini:

la prima, ricordare costantemente nella preghiera coloro che si trovano a migrare in condizioni spesso spaventose, da situazioni infernali, e molte volte vedono le loro speranze naufragare in nuovi inferni: perché ricordarli nella preghiera possiamo farlo tutti, e così ammettiamo almeno il loro diritto ad esistere;

la seconda, resistere con fermezza a pregiudizi e stereotipi che li vedono come invasori, ladri di lavoro, attentatori al nostro quieto vivere: informarsi ed informare, conoscere personalmente costruendo relazioni con coloro che sono diventati nostri vicini di casa, creare opinione e mentalità diverse, prima di tutto in noi stessi e nelle nostre comunità;

la terza, non lasciare tregua a chi ha la responsabilità di governare, affinché non rimuova rapidamente e reiteratamente queste problematiche dal proprio programma perché non creano consenso: in Italia, in Europa, dare impulso ad una opinione pubblica che sappia farsi sentire affinché si costruiscano strategie capaci di riconoscere dignità a persone che cercano un futuro un po’ meno tragico di quello che li condanna ad una vita tra violenza e morte.

E se fra le istituzioni e le forze politiche sembra non ci sia chi voglia assumersi la responsabilità di farsi capofila di simili preoccupazioni, allora non dovrà essere la comunità ecclesiale, la Chiesa italiana, a proporsi come istanza capace di non dare tregua, di aprire su questo fronte un contenzioso con chi ci governa?

E’ tempo che le lacrime giungano al cuore, lo rendano meno arido e indifferente. Solo così non saranno lacrime ipocrite di coccodrilli troppo sazi.

Don Bruno Baratto


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