Di Giovanni Dal Poz
Un paio di domeniche fa, in occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato, Caritas Tarvisina ha lanciato la proposta, a famiglie e parrocchie, di accogliere un richiedente asilo a pranzo. L’iniziativa ha avuto un successo inatteso e gli echi di questa massiccia risposta da parte della comunità sono rimbalzati sui media locali.
Tra i vari servizi ed articoli che raccontavano la giornata, è comparsa la dichiarazione di un amministratore di un piccolo comune che sosteneva, in sostanza, che chi aveva aderito all’iniziativa lo avesse fatto solo per un tornaconto personale.
Parlando dell’accaduto con alcuni collaboratori ci è stato chiesto perché non si fosse reagito a queste dichiarazioni e perché Caritas spesso rimanga in silenzio di fronte agli attacchi o ad accuse anche false che le vengono rivolte.
La risposta è semplice: per non legittimare questo modello di Comunicazione.
“Il Bene va fatto bene” è uno dei principi della Caritas Tarvisina e ciò vale anche per la comunicazione. Nell’agito Caritas infatti la comunicazione è uno strumento fondamentale per la ricaduta pastorale, in quanto permette a chiunque di vivere la narrazione della carità vissuta quotidianamente; inoltre diventa un veicolo fondamentale per svolgere l’azione di advocacy, dando “voce a chi non ha voce”. Per questo motivo lo stile della comunicazione di Caritas, non può essere casuale, ma deve essere funzionale e aderente alla sua mission.
Purtroppo però viviamo un momento storico in cui questo stile non è facile da mantenere, tutt’altro.
La comunicazione da “talk show” o “social media”, dove l’intervento è finalizzato solo al “like” o all’applauso, a prescindere dall’autorevolezza di chi lo pronuncia, dalla veridicità dello stesso, o dalla violenza che contiene, ha portato ad una degenerazione del modello comunicativo che sta profondamente segnando il momento in cui viviamo. Annichilire un interlocutore sovrastandolo con l’urlo “CAPRA, CAPRA, CAPRA!” è diventato una normalità che intrattiene, quasi un segnale di forza nella capacità dialettica.
Argomentare con evidenze scientifiche invece, rispettare l’interlocutore senza interromperlo, cercare di trovare un punto di incontro nella discussione, sono diventate pratiche che non portano ad un consenso immediato e pertanto non appartengono più alla comunicazione main stream.
È molto più facile urlare alla pancia infatti, che parlare alla testa!
In questo contesto quindi, la gestione della comunicazione di Caritas richiede due grandi virtù: pazienza e perseveranza. Non urlare ma narrare, conquistare la fiducia di chi ascolta, non comunicare per proclami ma attraverso l’esempio, sono infatti scelte che chiedono tempi molto lunghi, che non portano risultati immediati e che spesso costringono a mordersi la lingua per non scendere al livello degli interlocutori scorretti.
La consapevolezza che urlare più forte dell’interlocutore tuttavia, non serve ad essere ascoltati ma solo ad alimentare un imbarbarimento delle relazioni, sicuramente aiuta a frenare la lingua e la penna; l’unico antidoto efficace però per riuscire a rimanere lucidi e saldi nella scelta di questo stile comunicativo è pensiero di perché e per chi in primo luogo abbiamo fatto questa.