di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 23 agosto 2015
Ancora una volta papa Francesco ha mostrato come per lui il Vangelo sia non solo una buona notizia «spirituale», ma un annuncio che coinvolge tutta l’umanità nella sua condizione debole, fragile, limitata, segnata dalla sofferenza e dal male.
Così, proprio per vivere adeguatamente e in verità l’anno della misericordia proclamato, Francesco nel messaggio per la Giornata del rifugiato del prossimo 17 gennaio ha ricordato che vivere la misericordia da cristiani significa innanzitutto «fare misericordia», secondo il linguaggio del Vangelo, che con questo termine indica l’azione del samaritano verso l’uomo caduto vittima dei briganti sulla strada di Gerico.
Chi ha sperimentato la misericordia di Dio nei propri confronti deve «fare» misericordia verso l’altro a qualunque popolo, cultura, religione, condizione sociale appartenga. Chi è cristiano dovrebbe sentirsi per così dire «obbligato» a questo atteggiamento perché ha conosciuto nella propria carne la misericordia usatagli da Dio, ma anche chi non è cristiano può in ogni caso sapere che l’essere umano che sta di fronte a lui ha gli stessi suoi diritti, chiede lo stesso rispetto della propria dignità: così nasce la responsabilità di aiutare l’altro, di riconoscerlo, di fargli del bene, di liberarlo dalla condizione di sofferenza in cui giace.
Ecco perché papa Francesco afferma che «migranti e rifugiati ci interpellano»: sono nostri fratelli e sorelle in umanità, vittime della guerra, della violenza, del potere tirannico o della fame e della precarietà delle loro vite. Oggi sono in molti quelli che, anche se non cristiani, comprendono e denunciano come sia venuta meno nella nostra cultura e nel tessuto della nostra vita sociale la «fraternità», questa virtù senza la quale anche l’uguaglianza e la libertà restano parole vuote. Se non c’è la ricerca laboriosa e a volte faticosa della fraternità, allora l’altro, gli altri risultano soltanto realtà cosificate, valutate solo in base ai nostri interessi, alla loro utilità per noi, alla loro incidenza positiva o negativa sul nostro benessere individuale, al loro essere ostacoli sulla via della nostra felicità.
In una situazione come quella vissuta nei Paesi del benessere, seppur attraversati da crisi economiche patite dai più poveri e dai senza dignità, i cristiani e dunque la chiesa hanno innanzitutto il compito di mostrare, con il loro comportamento, e il loro contributo all’edificazione della polis, che si oppongono alla barbarie che avanza a grandi passi soprattutto da due decenni, in Europa e nella nostra Italia. Com’è possibile che il veleno della xenofobia abbia ammorbato le nostre popolazioni che più di altre hanno conosciuto in passato la sofferenza dell’emigrazione, la fuga da una terra incapace di dar loro lavoro e nutrimento? Com’è possibile che una lunga tradizione cattolica, vanto e orgoglio della chiesa negli ultimi decenni, si mostri così facilmente contraddetta in valori a lungo professati come quello dell’accoglienza e dell’ospitalità? Com’è possibile che godendo di condizioni migliori sul piano economico, tecnologico, culturale ci sentiamo minacciati dai poveri che bussano alle nostre frontiere? Non si tratta di accogliere tutti – perché questo non è possibile, prima ancora che per l’insostenibilità economica, a motivo della nostra stessa condizione umana segnata dal limite – ma almeno di tentare di regolare i flussi migratori in un’ottica di solidarietà europea, di fare terra bruciata attorno agli interessi economici e geopolitici che fomentano le guerre e le sopraffazioni, di favorire condizioni che permettano a quei popoli di restare nelle loro terre e di non essere costretti a intraprendere, al prezzo della vita, esodi attraverso il deserto e il Mediterraneo. La vita di una persona non ha forse lo stesso valore indipendentemente dalla terra in cui viene alla luce? I diritti, prima di essere quelli di un cittadino di una determinata nazione devono essere riconosciuti come «diritti dell’uomo» in quanto tale.
È in questa situazione disperata che papa Francesco, ma anche diversi esponenti della chiesa italiana, fanno sentire la loro voce in modo forte e anche critico, ma in obbedienza alle istanze del vangelo: sbattere la porta in faccia a chi sta morendo nel «mare nostro» o respingere chi si avvicina al nostro territorio è «uccidere il fratello», negargli il diritto a vivere. E se è vero che non si possono accogliere tutte le miserie del mondo, ciascuno tuttavia superi se stesso e i propri egoismi nell’accogliere chi nella sua miseria rischia la morte.
Chi dice che l’intervento della chiesa in questi giorni genera confusione o chi giudica le parole dei vescovi un’invasione nel campo della politica vuole semplicemente mettersi al riparo da parole profetiche scomode e giustificare l’attuale esercizio del potere politico e finanziario. È vero che la chiesa e la politica hanno compiti diversi, ma in un’autentica democrazia anche le parole della chiesa, come quelle dei cittadini possono essere contestazione dell’esercizio del potere politico ed economico e contribuire a renderlo più giusto. La verità è che negli ultimi due decenni in Italia ci eravamo abituati a una presenza di chiesa silente sui temi della giustizia sociale concerta o a volte addirittura a una presenza ecclesiastica che accettava di fornire un supporto al potere, intonacando il muro cadente di una politica corrotta e senza rispetto degli ultimi e dei poveri.
Sì, da un’ipotesi di «cattolicesimo quale religione civile» siamo ritornati a un cristianesimo profetico che sa dire la verità a caro prezzo, anche di fronte ai potenti. Ed è significativo che chi oggi si oppone maggiormente alle parole profetiche della chiesa non siano tanto atei devoti o laicisti irreligiosi, ma sovente proprio dei cattolici, che si mostrano «cristiani del campanile» e non del Vangelo, arrivando anche a chiamarsi «cattolici adulti» di fronte alla semplice denuncia evangelica dei vescovi. Costoro non conoscono nemmeno cosa significhi autonomia dei cattolici in politica, conquistata a caro prezzo già dai padri costituenti, e confondono l’essere cattolici con il semplice richiamo verbale urlato a riti e tradizioni svuotate del nerbo e della mitezza evangelica che le avevano suscitate. Criticare un uso distorto del potere non significa alimentare la sfiducia verso la politica bensì ricordare nel concreto delle azioni quotidiane che «merita il potere solo chi ogni giorno lo rende giusto». Se oggi constatiamo qualunquismo, diffidenza, sfiducia verso le istituzioni nazionali e sovra nazionali, i primi che si dovrebbero interrogare sulle cause sono proprio quelli che esercitano il potere politico: si chiedano se per loro la politica è servizio verso gli ultimi e i meno muniti, se hanno il senso del bene comune e, qualora si dicano cristiani, si confrontino concretamente con il Vangelo e le sue esigenze e non con gli appetiti del loro piccolo campanile. Anche su questo, migranti e rifugiati ci interpellano.