di Silvio Tessari tratto da Italia Caritas
E’ possibile perseguitare qualcuno per la fede che professa? Minacce turpi e violenze inedite, che credevamo relegate ai periodi bui della storia, vengono perpetrate oggi in vasti territori del Medio Oriente, ai danni delle minoranze religiose (dunque di molti cristiani), soprattutto nei territori controllati dal sedicente “Stato Islamico”, tra Siria del nord ed Iraq. A metà ottobre una delegazione CEI – Caritas Italiana, guidata dal Segretario generale della Conferenza Episcopale, monsignor Nunzio Galantino, ha fatto visita alla città di Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan, nel nord dell’Iraq, dove si accalcano le famiglie fuggite dalla vicina regione di Mossul e dalla confinante piana di Ninive, zona storicamente popolata da cristiani.
Dove sono i 120, o addirittura 250 mila cristiani sparsi nel nord Kurdistan?
Lasciamo le strade ed entriamo nei cortili delle parrocchie o nelle strutture attigue alla residenza di monsignor Bashar Warda, arcivescovo caldeo di Erbil. Troviamo il girone della sofferenza, punteggiato dal perenne sorriso di molti bambini incuriositi.
Capannone e monolocali
Nella sala del catechismo, una sorta di grande capannone, sono alloggiate 32 famiglie; lungo i muri sono impilati i materassi di gomma per avere un po’ di spazio per muoversi di giorno. Saranno circa 150-160 persone, tra bambini, adulti ed anziani: due metri quadrati per materasso e di notte il capannone si trasforma in una distesa di corpi, con divisori costituiti da lenzuola o coperte sostenute da cordicelle stese tra i muri. Ci sono anche 32 fornelli a gas, uno per famiglia, utilissimi ma pericolosi per le esalazioni ed il rischio di incendi. Su ogni mucchio di materassi c’è una raffigurazione della Madonna o della Sacra Famiglia, o di Papa Francesco. Ognuno ha la sua, come un distintivo. Sul pavimento ci sono pentole, bidoni per l’acqua, piatti, vestiti, giocatoli, gli anziani malati che non possono muoversi, qualche disabile.
La chiesa del Kurdistan ha messo 27 strutture come questa a disposizione dei rifugiati.
Si recita il Padre Nostro in aramaico, la lingua di Gesù rimasta lingua liturgica. Quasi di sfuggita padre Butros Tabhet, sacerdote che era parroco nella regione di Ninive e che ora continua qui, con le maniche rimboccate avverte che ogni monolocale ospita tre famiglie, in tutto 140 famiglie…
Una guerra intellettuale
“Perché siamo finiti qui? Ci hanno dato 4 minuti per fuggire. Non vogliamo andare all’estero, ma come potremo tornare nelle nostre case senza una protezione adeguata? Noi amiamo l’Iraq, ma l’Iraq non ci ama più. Dove andremo?”. Non sanno perché sono fuggiti, non sanno dove andranno.
Nel centro commerciale (la Hall) di Hanqawa 230 famiglie sono ospitate in un edificio di tre piani non finito. Vivono in container, uno di fianco all’altro, una media di 9 persone per container, sistemati tra i pilastri di cemento della costruzione. C’è tristezza, non astio: “Siamo scappati per la fede – dice un uomo -; qui stiamo bene, ma vorremmo stare un po’ meglio”.
Il vescovo di Qaraqosh, Butros Moshe, ha trovato rifugio in un container, suo attuale palazzo episcopale, dal quale dà da mangiare a 650 famiglie in tende affastellate e di cattiva qualità. Quando piove, molte sono allagate. Furgoncini di volontari della comunità cristiana locale portano minestra e pane enormi in pentoloni. Si distribuisce tutto in fretta, c’è anche un po’ di allegria.
Sofferenza, povertà improvvisa, paura del futuro, senso di essere “di troppo” nel paese dove vivono da secoli. I rifugiati in Kurdistan possono contare almeno su un atteggiamento accogliente delle autorità regionali e locali. Non è persa del tutto la speranza che una via di convivenza possa essere possibile. “Ma per fermare il terrorismo non ci sono solo le armi, bisogna fare una guerra intellettuale – afferma Padre Samir, nostro accompagnatore ed interprete -. Non basta togliere dalla strada le immondizie, se altri ne mettono ancora”.
Una battaglia intellettuale, comunque un’incessante mediazione tra culture. È il ruolo dei cristiani in Medio Oriente. In un mondo che tende a chiudersi nelle proprie identità, i popoli che la storia ha reso mediatori tra civiltà contrapposte non vanno lasciati in balia dei fanatici.