Tratto da Italia Caritas – Numero 5 – giugno 2015
Era il 27 ottobre 2014, quando sulle colonne di Avvenire compariva un articolo sulla chiusura di Mare Nostrum. In esso Guido Bolaffi, tra i massimi esperti europei d’immigrazione, già capo dipartimento del ministero delle politiche sociali, non prevedeva scenari apocalittici per la fine dell’operazione italiana e la staffetta con quella europea ribattezzata Triton. Il controcanto di Caritas Italiana esprimeva invece grande preoccupazione per la fine di Mare Nostrum: «Si rischiano più morti e nuove stragi lungo le rotte del Mediterraneo». La conferma che la previsione giusta era la più nefasta è giunta puntuale a pochi mesi dalla partenza dell’operazione Triton. Ripresi gli sbarchi, sono ricominciate le tragedie. La peggiore, il 18 aprile: centinaia di persone, oltre 700 secondo i testimoni, oltre 900 secondo un sopravvissuto, sono morte in un naufragio nel canale di Sicilia. Probabilmente, la peggior disgrazia di sempre nella storia delle migrazioni.
Vittime in aumento
Come ricorda l’autorevole Ispi (Istituto di studi politici internazionali), una strategia basata sulla deterrenza non scoraggia l’immigrazione irregolare. Negli anni Novanta gli Stati Uniti hanno rafforzato le barriere di controllo in alcune zone al confine con il Messico, rendendo più difficile il passaggio in alcuni dei punti più utilizzati dagli immigrati irregolari. Tuttavia tra 1991 e 2000 il numero di immigrati irregolari dal Messico è più che raddoppiato. L’unico risultato di quella strategia è stato che si è reso più pericoloso il tragitto, dal momento che molti migranti hanno scelto zone più impervie e pericolose, perché considerate meno pattugliate. Ciò ha determinato un drammatico aumento del numero delle vittime.
Così in Europa, negli ultimi mesi, il passaggio da Mare Nostrum a Triton è coinciso con una riduzione fisiologica degli sbarchi: era inverno. Poi, il drastico aumento. Tra gennaio e aprile 2015 gli arrivi sono stati 24 mila, contro i 20 mila dello stesso periodo del 2014. Intanto, il rischio della traversata è più che triplicato: si stima che, tra gennaio e ottobre 2014, abbiano perso la vita 2 persone ogni 100 che hanno raggiunto il suolo italiano, mentre nel periodo dell’operazione Triton la 6 ogni 100. L’instabilità nei paesi della sponda sud del Mediterraneo, d’altronde, ha fatto notevolmente aumentare il numero degli migranti in fuga per motivi politici, prima ancora che economici. Dei 170 mila sbarcati illegalmente in Italia nel 2014 (+400% rispetto al 2013), almeno il 60% fuggiva da zone di guerra, soprattutto Siria, Mali e Somalia. Un dato confermato dagli esiti delle richieste d’asilo, negli ultimi due anni in netta maggioranza (67%) favorevoli a una qualche forma di tutela giuridica.
Soluzioni di facciata
Le tragedie hanno posto una riluttante Europa di fronte alle sue responsabilità. Ma le soluzioni ipotizzate inizialmente, e sostenute dal governo italiano, sono legate a un blocco navale delle coste libiche. L’Italia aveva condotto un’operazione simile negli anni Novanta per fermare l’immigrazione dall’Albania.
Attualmente, l’Australia sta rafforzando un sistema simile per arginare l’immigrazione dall’Indonesia. Sebbene gli esperti concordino sul fatto che sia un’opzione percorribile e l’Ue la stia valutando, la sua gestione risulterebbe complessa e le controindicazioni rimarrebbero molte. L’operazione, infatti, costituirebbe un atto di guerra, secondo il diritto internazionale, e richiederebbe l’autorizzazione da parte delle Nazioni Unite e l’assenso del governo libico. Inoltre, come già accaduto nel caso dell’Albania, l’impiego di navi militari potrebbe dare luogo a incidenti. Un’alternativa, anch’essa adottata negli anni Novanta con l’Albania, consiste nel sequestrare e distruggere le imbarcazioni usate dagli scafisti nei paesi di partenza. L’operazione in Albania si accompagnava a un programma di assistenza tecnica alla polizia locale e terminò con il passaggio di consegne a essa. Una sua replica in Libia risulterebbe più difficile, in quanto necessiterebbe di un accordo con le autorità locali, difficilmente ottenibile in un paese tanto instabile, ed esporrebbe le forze italiane a un contesto più rischioso. Entrambe le opzioni, inoltre, non permetterebbero di individuare chi ha diritto a ottenere l’asilo. Chi gestirebbe i campi? Per questi motivi Caritas Italiana, il 20 aprile, affermava all’agenzia Asca che «il problema non è solo combattere gli scafisti, ma sottrarre loro materiale umano, quel carico enorme di disperati che fuggono con i loro figli da bombe, guerre e tagliagole verso l’Europa, e che non hanno un canale regolare per arrivare nei paesi Ue, ma solo la possibilità di mettersi nelle mani di questi criminali». Appare necessario, in altre parole, che si riaprano in Europa e in Italia canali regolari di ingresso, dopo la fine, da un paio d’anni, del decreto flussi, che ha di fatto interrotto ogni possibilità di perforare legalmente la corazza dei confini. Oggi, in definitiva, non si può arrivare in Europa in sicurezza. Questo, secondo Caritas, è “il problema”. E lo è soprattutto in relazione all’annunciata crescita dei flussi per motivi umanitari, date le sempre più intricate situazioni di guerra in Siria, Iraq e Libia, e la perenne instabilità dell’intero Medio Oriente. Quanto alla proposta dei campi di transito da allestire sulle coste del Nord Africa, che pure si sta dibattendo tra Roma, Bruxelles e le altre capitali europee, è necessario constatare che la questione va studiata in modo attento e lungimirante. Tali campi, concepiti come filtro per scremare gli aventi diritto al viaggio verso l’Europa, anzitutto andrebbero posti in paesi dove si rispettano i diritti umani. Poi occorrerebbe capire cosa accadrebbe a quanti (famiglie, donne e bambini) non verrebbero ammessi a coronare il loro progetto migratorio e come si assicurerebbe loro il ritorno a casa. Infine, va stabilito chi gestirebbe questi campi, e con quali fondi.
Accoglienza diffusa in crisi
Resta il fatto che, a partire dai primi mesi del 2014, gli sbarchi e i salvataggi in mare dei migranti si sono intensificati notevolmente. Tutte le prefetture italiane sono state allertate, per verificare la disponibilità, da parte di organizzazioni e associazioni umanitarie, di mettere a disposizione posti presso proprie strutture. Diverse Caritas diocesane hanno risposto all’appello e Caritas Italiana ha avviato un monitoraggio delle accoglienze. Ad aprile 2015, erano stati oltre 6 mila i migranti accolti dalla rete Caritas tramite convenzioni sottoscritte con le prefetture. In proposito, le recenti indagini che hanno coinvolto la Caritas di Teggiano-Policastro hanno visto esprimere, da parte della diocesi locale, «sorpresa, insieme alla piena fiducia nell’operato della magistratura». La diocesi campana ha ricordato che «l’accoglienza dei migranti ha trovato la nostra Caritas in prima linea, in una missione affrontata senza scopo di lucro e con generosa dedizione», esprimendo l’auspicio che «tale opera non sia vanificata». Don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana, ha altresì ricordato «quello che è davvero il “sistema Caritas”: operatori e volontari impegnati ogni giorno accanto ai più bisognosi, gente semplice che spesso è la più generosa, famiglie che si autotassano mensilmente, persone che attraverso l’adesione a una delle tante iniziative Caritas iniziano un cammino di attenzione ai bisogni del prossimo». Attualmente in Italia si trovano in accoglienza più di 80 mila persone. L’esigenza attuale è duplice: da un lato provare a liberare i posti, cercando di accelerare le procedure delle richieste d’asilo; dall’altro individuarne di nuovi posti, nonostante molti enti locali non diano disponibilità in tal senso. La chiusura all’attivazione di nuovi posti sta mettendo in crisi il modello di accoglienza diffusa. Ciò porterebbe alla necessità di individuare strutture di ampie dimensioni. Che nessuno vuole. L’accoglienza diffusa resta il modello più praticabile e auspicabile. Inoltre tra il 2014 e i primi mesi del 2015 sono arrivati molti minori non accompagnati, circa 10 mila. Per mesi sono stati ospitati in condizioni di grande precarietà e promiscuità con gli adulti; solo recetemente sono stati approvati progetti di primissima accoglienza e a breve dovrebbe partire un bando Sprar per interventi di lunga durata. Almeno ai piccoli, dobbiamo un’accoglienza che si possa definire umana.