GEMELLAGGIO IN GIORDANIA CON LA CARITAS TARVISINA E LA PASTORALE GIOVANILE
Pienezza. Questa è la sensazione che ha lasciato dentro di me l’esperienza che ho vissuto in Giordania, organizzata da Caritas Tarvisina, in collaborazione con l’ufficio diocesano per la Pastorale Giovanile di Treviso. Quella sensazione di pienezza che ti si sprigiona dentro e invade il tuo cuore quando incontri l’altro nel profondo e senti la potenza che assume questo incontro, lasciando un segno nella tua vita.
Le prime persone che ho incontrato sono state i miei compagni di viaggio, otto giovani che, come me, hanno voluto partire alla scoperta di una nuova cultura, nuovi paesaggi, nuovi sapori, ma soprattutto nuovi volti, nuove storie, che potessero farci comprendere più da vicino quanto sta accadendo in Medio Oriente. Ad accompagnarci: Annalisa De Faveri, operatrice di Caritas tarvisina e don Andrea Guidone, direttore dell’ufficio diocesano per la Pastorale Giovanile, insieme a Cristina e a Danilo, una coppia che si è resa disponibile a partire con noi per aiutarci negli aspetti organizzativi, con lo stesso nostro desiderio nel cuore.
Nell’incontro di preparazione Annalisa ci aveva spiegato che nel 2016 è nato un gemellaggio tra Caritas Tarvisina e Caritas Giordania con l’idea che la prima, anche attraverso questa esperienza, potesse offrire un segno di vicinanza e di sostegno alla seconda nel suo operare a favore dei profughi siriani, iracheni e palestinesi che fuggono dal loro Paese a causa di guerre e persecuzioni. La Giordania, infatti, è il secondo Paese del Medio Oriente, dopo il Libano (se si escludono i rifugiati palestinesi), con la più alta presenza sul proprio territorio nazionale di rifugiati in proporzione alla popolazione locale. Noi, in particolare, abbiamo avuto modo di relazionarci con i cristiani iracheni, i quali sono costretti letteralmente a scappare dalla loro terra in quanto perseguitati da parte dell’ISIS a causa della loro fede e che, non potendo lavorare in territorio giordano, sono in attesa da mesi o anni di poter emigrare in un altro Paese per poter garantire una vita più dignitosa ai loro figli.
La parrocchia latina del Santo Spirito nella città di Madaba è il luogo in cui abbiamo operato e alloggiato, situata a 35 km dalla capitale Amman. Siamo stati ospitati in un ex campo profughi dove fino allo scorso anno vivevano 250 persone irachene. È stata un’esperienza importante quella di poter dormire sugli stessi container spogli e impolverati da loro abitati. Ci ha permesso di immedesimarci un po’ nella loro situazione, seppur, si dovesse immaginare, molto peggiore: i pochi bagni e docce noi le dividevamo in 13 persone, loro in 250; noi vi abbiamo alloggiato per due settimane, loro per almeno un anno; noi potevamo contare su una valigia piena di tutto ciò di cui avevamo bisogno, loro hanno avuto poche ore di tempo per scappare, senza poter prendere nulla con sé e hanno dovuto lasciare alle spalle tutte le proprie sicurezze: un buon lavoro (per più di qualcuno qualificato), la propria casa, alcuni dei loro cari, i propri averi, una vita serena…
Le attività mattutine in cui gli operatori di Caritas Giordania ci hanno coinvolto erano quelle organizzate da Caritas nel Centro di Ascolto di Madaba e in altri due centri dove si dà la possibilità ai rifugiati di imparare alcuni lavori utili per una riqualificazione professionale come la produzione delle spezie, a partire dalla coltivazione delle piante aromatiche, la lavorazione del legno, la produzione di saponi e la composizione di mosaici, essendo Madaba conosciuta anche come la “città dei mosaici”. Nel pomeriggio, invece, abbiamo incontrato alcune famiglie rifugiate e i bambini di questi nuclei familiari proponendo dei giochi e delle attività con l’intento di offrire loro dei momenti di serenità e socializzazione, dato che molti di loro non hanno la possibilità di andare a scuola. Annalisa e don Andrea prima di partire hanno voluto farci comprendere bene quale fosse il senso della nostra presenza nei luoghi in cui avremo prestato servizio: non sarebbe stato tanto il capire, il fare (non c’era bisogno di noi, in questo sono autosufficienti), quanto piuttosto l’esserci, il saper stare affianco a quelle persone, il saper ascoltare…non tanto l’esserci per loro ma con loro, così da non farli sentire soli, abbandonati, così da accorgerci di loro, scacciando l’indifferenza. Per quanto l’importanza dell’esserci l’avessi già sperimentata in diversi momenti durante l’Anno di Volontariato Sociale trascorso in Caritas Tarvisina, non riuscivo a spiegarmi con convinzione come effettivamente la nostra presenza della durata di sole due settimane in quei territori potesse far sentire a quelle famiglie la nostra vicinanza. Invece è stato proprio così. Noi avevamo sete dei loro racconti e loro del nostro ascolto. Ed ecco che lavorando nei campi per togliere le erbacce, componendo un mosaico o bevendo una tazza di caffè gentilmente da loro offerta per accoglierci calorosamente nella loro casa, le distanze si sono accorciate ed è nato uno scambio, un senso di fratellanza e di gratitudine per ciò che l’uno aveva donato all’altro. Quelle persone non saranno più per noi “dei rifugiati iracheni”, ma possiamo chiamarle per nome, collegarle ad un volto, ad una storia, a quelle specifiche emozioni che ci hanno detto di aver provato e a quelle che abbiamo percepito stessero sentendo mentre condividevano con noi un pezzo doloroso della loro vita. Ho ancora nitidamente in mente quelle trasmesse dagli occhi di Amir: dopo avermi fatto vedere il video della sua casa annerita e distrutta dalle fiamme appiccate dall’ISIS, mentre esclamava “l’ISIS è cattivo” il suo sguardo mi ha colpito con potenza, come un fulmine. Era una scarica colma di indignazione, dolore, sconforto, ma soprattutto rabbia. Perché arrivare a tanto? Questa è la domanda che più volte è sorta dentro di me ascoltando racconti come questo ed è un interrogativo che ho letto anche negli occhi di Amir in quel momento. Poche, semplici parole in un inglese tentennante e povero accompagnate da quello sguardo hanno fatto risuonare in quella stanza tutta la sofferenza che Amir ormai da due anni sta attraversando. Mi ha fatto vedere anche le foto di suo figlio e ho sorriso nello scoprire che era uno dei bambini che veniva a giocare con noi nel pomeriggio e nel vedere come a quel punto il suo sguardo fosse cambiato e parlasse di Amore e Speranza.
Un bel rapporto si è creato anche con gli operatori e i volontari giordani che ci hanno permesso di vivere questa esperienza. C’era il desiderio di confrontarsi, collaborare, ritrovarsi insieme ed era bello sentire di essere uniti dallo stesso ideale di pace e dalla stessa fede. Una fede che in Giordania, come in Iraq, rappresenta una minoranza e che per questo si percepisce molto forte in loro, nonostante le persecuzioni.
Se a tutto questo si aggiunge lo stupore che inevitabilmente si prova di fronte a bellezze, quali quelle che abbiamo ammirato nei fine settimana, come Petra, l’alba dal deserto di Wadi Rum, il Mar Morto e la visuale che dal Monte Nebo si ha della Terra Promessa, allora ecco che si spiega la sensazione di pienezza. E insieme a questa una profonda gratitudine nei confronti di tutti coloro che mi hanno permesso di vivere questa esperienza, di tutti coloro che ho incontrato e di Dio per questo immenso dono che ha voluto offrirmi. Shukrân!
Ines