Il covid19 ha avuto un impatto irruento anche nei territori dell’Iraq, già precedentemente colpiti da conflitti e violenze: un luogo in estrema crisi… forse addirittura un non-luogo, che si confronta però, quotidianamente, con vite umane. Mancano, di base, l’acqua e l’essenziale per l’igiene personale.
Durante gli ultimi quaranta anni il popolo iracheno ha subito quattro guerre, dieci anni di embargo, otto anni di occupazione militare straniera e nove anni di terrorismo interno sfociato in quella che da più parti è stata definita una vera e propria guerra civile, tuttora in corso, che colloca l’Iraq al quartultimo posto nella classifica mondiale che misura il livello di pace interno ad un Paese (Global Peace Index).
I milioni di rifugiati o sfollati di queste terre irachene molto spesso si rifugiano in campi o in zone dove il distanziamento sociale è pressoché impossibile e le condizioni sanitarie allo stremo.
Impossibile quindi pensare che siano riforniti di mascherine, gel o posti letto in terapia intensiva all’ospedale.
L’Iraq, nello specifico, come anche tanti altri “Stati fragili” vive sospeso nella speranza di una resilienza popolare, l’anarchia dettata dalla paura del “si salvi chi può” e la seduzione della dittatura di un uomo forte al potere.
La situazione si presenta estremamente critica e delicata, suscettibile di paura e desolazione. Ma l’importante è non perdere mai la speranza, come ci ricorda Papa Francesco, e continuare a pregare affinché questa realtà dei fatti possa portare respiro ad ogni persona.