“Un atteggiamento che cercherò di avere è di non fissare i ragazzi migranti con occhi strani”. E’ una ragazza delle medie che l’ha scritto … ed è di certo un punto di partenza per accorgersi e accogliere le persone straniere che incontriamo.
Parlare ai giovani di temi importanti come l’incontro con l’altro, l’accoglienza, l’integrazione sembra sempre complicato, sembra difficile e poco produttivo. Perché? forse perché noi adulti, che crediamo troppo spesso di avere la verità in tasca, pensiamo di dover convincere, crediamo che la nostra opinione, il nostro pensiero dovrà essere quello dei ragazzi. E invece succede che si lancia una parola, una frase, un pensiero e 30 ragazzi dicono la loro, che in realtà non è la prima cavolata che passa per la mente. E’ un’idea ben pensata, è un interrogativo lecito, è un voler andare oltre all’opinione pubblica…è persino sapersi mettere nei panni dell’altro, immaginandone sofferenze e sogni. Questo mi è accaduto passando una mattinata al camposcuola dei ragazzi delle medie del vicariato di Spresiano.
L’arduo obiettivo di parlare di integrazione si è rivelato per me la scoperta di giovani menti e cuori capaci di emozionarsi di fronte alla storia di un ragazzo migrante, di interrogarsi su come poter vivere al meglio l’incontro con l’altro diverso da loro, di dire le paure che li abitano e persino di dire come potrebbero impegnarsi per essere promotori di una cultura dell’accoglienza e non dell’esclusione. Alla fine per noi adulti si tratta di mettersi da parte, di raccontare loro come stanno le cose in maniera vera e oggettiva ma di lasciare a loro tempo e spazio per pensarci su, per avere un’opinione, esprimerla, magari anche per cambiare idea. Questi ragazzi sono bombardati da un certo tipo di informazioni veicolate da un certo tipo di media e non possiamo pretendere che ragazzi così giovani siano in grado di cercare i giusti canali per una conoscenza vera della realtà, sta a noi aiutarli a formarsi un atteggiamento critico di fronte a ciò che sentono e vivono ma sempre a partire dal loro punto di vista, da dove loro partono, dalle esperienze che hanno vissuto.
I ragazzi che ho incontrato hanno ascoltato in silenzio e con rispettosa attenzione la testimonianza di chi vive la condizione di migrante, non hanno banalizzato né deriso, ma hanno fatto domande, con interesse e intelligenza su ciò che non hanno capito, si sono messi nei panni dei ragazzi che partono facendo proprie paure e speranze e si sono ripromessi di riconoscere nei migranti uomini e donne prima di tutto. Hanno compreso come la carità si vive in piccoli gesti quotidiani, non con grandi scelte e grandi proclami, ma tramite una costante attenzione all’umanità dell’altro.
Un plauso ovviamente anche agli adulti che li hanno accompagnati e che cercano per loro modi nuovi e alternativi per conoscere il mondo, che vogliono smuovere in loro una coscienza nuova e sopratutto che non demordono di fronte ad una società che stimola da tutt’altra direzione.
E’ stato un piacere!