KR46Mo - CARITAS TARVISINA

KR46Mo

Credo che sia giunto il tempo in cui se vogliamo custodire la vita e tutelare i diritti di ogni uomo, sia necessario assumerci in prima persona il dovere di rispettare e onorare la sacralità di ogni esistenza, compresa quella di madre terra

La tragedia che domenica 26 febbraio, al largo di Cutro, ha spazzato via i sogni di una vita nuova di centinaia di migranti, è una ferita lacerante. Ogni parola muore nel cuore insieme a quelle esistenze inghiottite dal mare. Credo che, dinanzi al dramma di milioni di persone che anelano alla vita e si mettono in cammino alla ricerca di un futuro, sia necessario recuperare la cifra dell’umano. Mi sono detto che è compito mio non archiviare, come elementi statistici o di cronaca, le sofferenze e i drammi che incatenano uomini, donne e bambini in ogni angolo della terra. È compito mio cambiare se desidero che il mondo cambi. Sono rimasto impietrito dinanzi a quelle bare adagiate sul parquet del palazzetto di Cutro. Ancor più mi hanno ferito le schermaglie politiche che si sono ingenerate al di là di questa nuova ed immane tragedia della disperazione. Ognuno ha delle idee da difendere, delle posizioni da affermare, degli elementi su cui rivendicare e giudicare. La realtà delle migrazioni è complessa, perché la vita dell’uomo lo è e soprattutto perché tutto viene complicato dalle ingiustizie che insanguinano questa nostra umanità. Trovo sterile un dibattito dove si è alla continua ricerca di colpevoli, dove si semplificano situazioni di grave iniquità affermando che tutto si risolve bloccando le partenze e fermando gli scafisti. Credo che sia giunto il tempo in cui se vogliamo custodire la vita e tutelare i diritti di ogni uomo, sia necessario assumerci in prima persona il dovere di rispettare e onorare la sacralità di ogni esistenza, compresa quella di madre terra. Le persone partono, lasciano la loro casa, i loro affetti, la loro terra perché la morte si sta impadronendo del loro cuore e del loro futuro. Io desidero un cambiamento di rotta, perché voglio con tutte le mie forze che nessuna vita si incagli ancora nei bassifondi della disperazione e nelle secche dell’indifferenza. Perché questo avvenga sento che devo cambiare io. Parto allora dall’abbassare il dito del giudizio, per piangere questi fratelli che sono morti, pregare per loro e per la mia conversione.

In questi giorni mi ritorna alla mente quella piccola bara bianca con adagiata una macchinina della polizia. Era contrassegnata da una sigla KR46M0, la vittima più “piccola” (giovane) di questo tremendo naufragio. Non si sa nulla di lui come di molti altri. KR sta ad indicare la zona di Crotone dove è avvenuto il naufragio, 46 il fatto che è stata la quarantaseiesima vittima ritrovata, M che era un maschietto, 0 anni di età, dato che aveva pochi mesi di vita. Questo piccolo fratellino che si stava affacciando alla vita, non aveva neanche consapevolezza di dove stava andando e del pericolo che stava correndo. Le onde tumultuose lo hanno rapito e portato via … verso il cielo. Se n’è andato insieme a tanti altri, accarezzato e custodito dal sogno dei suoi genitori di dargli una vita migliore. Su quel scoglio si sono infrante le loro speranze e oggi si infrangono le nostre ipocrisie che da qualche parte cercano di additare queste scelte disperate come mancanza di responsabilità. Caro fratellino non ti ricorderò come KR46M0, ma come un segno prezioso che mi chiede di assumermi la responsabilità del cambiamento. Non ti dimenticherò e spero non ti dimenticheremo, come tutta quell’umanità sofferente che affoga nel mare, muore sotto le bombe o arsa dalla siccità, divorata dall’ingiustizia e dalle logiche, senza scrupoli, del potere, dell’avere, del dominare. “Piccolo angelo” ti porterò nella mia preghiera e spero che smettiamo di giudicare, impariamo a fare silenzio e a pregare, per riconsegnare e ritrovare orizzonti di dignità per ogni creatura. Tu e tutte le altre vittime non resterete alla memoria come KR46Mo e KR…, ma come SPSF, Siete Per Sempre Fratelli con un nome, un volto, una storia, seppur breve.

Ti abbraccio e ti saluto, con le lacrime nel cuore e con le parole di Warsan Shire, una scrittrice di origine somala. Le sue parole spazzano via le sterili polemiche di questi giorni e ci ricordano che chi manca nelle sue responsabilità non è chi parte, ma chi parla troppo, giudica frettolosamente e continua a fare il proprio interesse.

“Nessuno lascia la casa a meno che” di Warsan Shire

Nessuno lascia la casa a meno che
la casa non sia la bocca di uno squalo

scappi al confine solo
quando vedi tutti gli altri scappare
i tuoi vicini corrono più veloci di te
il fiato insanguinato in gola
il ragazzo con cui sei andata a scuola
che ti baciava follemente dietro la fabbrica di lattine
tiene in mano una pistola più grande del suo corpo
lasci la casa solo
quando la casa non ti lascia più stare.

Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci
fuoco sotto i piedi
sangue caldo in pancia

qualcosa che non avresti mai pensato di fare
finché la falce non ti ha segnato il collo
di minacce
e anche allora continui a mormorare l’inno nazionale
a mezza bocca
solo quando hai strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto
singhiozzando a ogni boccone di carta
ti sei resa conto che non saresti più tornata.

Devi capire
che nessuno mette i figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra

nessuno si brucia i palmi
sotto i treni
sotto le carrozze
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di carta di giornale a meno che le miglia percorse non siano più di un semplice viaggio

nessuno striscia sotto i reticolati
nessuno vuole essere picchiato
compatito

nessuno sceglie campi di rifugiati
o perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo dolorante

né la prigione
perché la prigione è più sicura
di una città che brucia
e un secondino
nella notte
è meglio di un camion pieno
di uomini che assomigliano a tuo padre

nessuno ce la può fare
nessuno può sopportarlo
nessuna pelle può essere tanto resistente.

Andatevene a casa neri
rifugiati
sporchi immigrati
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese
negri con le mani tese
e odori sconosciuti
selvaggi
hanno distrutto il loro paese e ora vogliono
distruggere il nostro

come fate a scrollarvi di dosso
le parole
gli sguardi malevoli

forse perché il colpo è meno forte
di un arto strappato
o le parole sono meno dure
di quattordici uomini tra
le cosce
perché gli insulti sono più facili
da mandare giù
delle macerie
delle ossa
del corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.

Voglio tornare a casa,
ma casa mia è la bocca di uno squalo
casa mia è la canna di un fucile
e nessuno lascerebbe la casa
a meno che non sia la casa a spingerti verso il mare

a meno che non sia la casa a dirti
di affrettare il passo
lasciarti dietro i vestiti
strisciare nel deserto
attraversare gli oceani

annega
salvati
fai la fame
chiedi l’elemosina
dimentica l’orgoglio
è più importante che tu sopravviva

nessuno se ne va via da casa finché la casa è una voce soffocante
che gli mormora all’orecchio
vattene
scappa lontano adesso
non so più quello che sono
so solo che qualsiasi altro posto
è più sicuro di qua.

 

Don Davide Schiavon

7 marzo 2023


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