Celebriamo, oggi 20 giugno la giornata mondiale del rifugiato avendo nel cuore le tante vittime di naufragi, stenti, fatica che abbandonano i loro paesi in cerca di scampo dalla guerra, dalla fame, dall’oppressione. Con l’opportunità di questa giornata proviamo ad uscire dagli stereotipi di una informazione sovente inquinata e faziosa. Proviamo a metterci in ascolto del grido dei migranti. Proviamo ad immaginare, ad entrare solo con il pensiero nel dramma di altri ….
La vostra casa che siete soliti usare per essere una casa, ora è solo un rifugio. Nessun conforto, nessun calore. E’ quasi buio e non ci sono luci per strada. Si possono sentire spari e bombe in arrivo. A volte vicino, a volte lontano. La terra trema e l’intonaco dei vostri soffitti si sbriciola. Le cose peggiorano e arriva l’esercito. I militari passano per le strade, gridando alla gente di uscire e di fare in fretta. Tu non vuoi andare, ma non vuoi neppure morire. Stai camminando. Tua madre è vecchia, il suo braccio è aggrappato al tuo per impedirle di inciampare. Ci sono persone dovunque, tutte a piedi, tutta la strada a piedi, su e ancora su. Si cammina per giorni. Non c’è quasi nulla da mangiare. Sei così smagrita che quasi non ti riconosci, e il tuo corpo è tanto, Tanto stanco. Vai oltre, fuori dal tuo territorio – c’è l’acqua davanti a te, la guerra alle spalle. Ognuno si arrampica per un posto sulla barca. Tu non vuoi andare, ma non vuoi morire …
Per tutti noi, questa è un’esperienza fugace e immaginaria. Per molti, questa è la vita reale. Ogni minuto, otto persone lasciano tutto alle spalle per fuggire guerre, persecuzioni o terrore. Un piccolo numero di loro vengono in Occidente e fanno i titoloni nelle notizie. Decine di milioni di persone non lo fanno.
Questo è il momento per gridare forte che la pace è un dono possibile, per affermare con grande forza la dignità e la tutela dei diritti di ogni uomo. Non possiamo rimanere nell’indifferenza, non possiamo girarci dall’altra parte. È compito nostro, la vita di questo fratelli è affidata alla nostra custodia, alle nostre scelte quotidiane, alle nostre fragili mani.
In questa prospettiva facciamo nostra la proposta di Gabriele Del Grande: di fronte ai fenomeni migratori sfruttati da mafie e criminalità organizzate, uno stato di diritto ha l’obbligo di cercare forme giuridiche adeguate per eliminare le vie della morte garantendo al contempo la legalità e la sicurezza di tutti i cittadini.
Lettera di Gabriele del Grande, blogger, giornalista e regista
“Caro Paolo Gentiloni,
avendo passato dieci anni della mia vita a contare i morti lungo la rotta libica, mi permetto di darle un consiglio non richiesto. La rotta va chiusa, concordo. Basta morti, basta miliardi alle mafie libiche e basta miliardi all’assistenzialismo. Tuttavia state andando nella direzione sbagliata.
Arrestate duecentomila persone l’anno a Tripoli, e l’anno dopo ne avrete altrettante diniegate dagli uffici visti delle Ambasciate UE in Africa e pronte a bussare alla porta del contrabbando libico. E se non sarà Tripoli, sarà Izmir o Ceuta. Perché questo è il problema. I visti! Ormai li rilasciate soltanto ai figli delle élite o a chi ha abbastanza soldi per corrompere un funzionario in ambasciata. E i lavoratori ? E gli studenti ? E la classe media? A tutti loro non resta che il contrabbando.
E il contrabbando non si sconfigge con gli accordi di polizia. Ci hanno già provato Prodi, Berlusconi e Monti. E l’unico risultato è stato accrescere le sofferenze dei viaggiatori e gli incassi delle mafie. Il contrabbando, da che mondo è mondo, si sconfigge in un solo modo: legalizzando le merci proibite. In questo caso la merce proibita è il viaggio. Ed è giunta l’ora di legalizzarlo anche per l’Africa, così come avete fatto per l’Est Europa, i Balcani, l’America Latina, l’Asia. Riscrivete le regole dei visti Schengen. Allentate le maglie. Fatelo gradualmente. Partite con un pacchetto di cinquanta-centomila visti UE all’anno per l’Africa. E se funziona, estendete il programma. Iniziate dai paesi più interessati dalle traversate: Eritrea, Somalia, Etiopia, Nigeria, Ghana, Gambia, Mali, Niger, Senegal, Egitto e Tunisia. Visti di turismo e ricerca lavoro, validi sei mesi in tutta la UE, rinnovabili di altri sei mesi e convertibili in permesso di lavoro dopo un anno senza bisogno di nessuna sanatoria.
Chi oggi investe tre-quattromila euro per il viaggio Lagos-Tripoli-Lampedusa, investirebbe gli stessi soldi per comprare un biglietto aereo, affittarsi una camera e cercare un lavoro. E se non lo trovasse, tornerebbe in patria sapendo che potrebbe ritentare l’anno successivo.
Che poi è esattamente quello che hanno fatto milioni di lavoratori arrivati in Italia dalla Romania, dalla Cina, dalle Filippine, dal Marocco, dall’Albania o dall’Ucraina. È quello che hanno fatto cinque milioni di lavoratori italiani emigrati all’estero. Ed è quello che vogliono fare ognuna delle duecentomila persone che ogni anno emigrano dall’Africa verso l’Europa: rimboccarsi le maniche cercando un’opportunità.
Se un italiano a Londra o un cinese a Milano ce la possono fare da soli, perché un ghanese a Berlino o un congolese a Trieste non possono fare lo stesso? Tra la repressione in frontiera e l’assistenzialismo in casa, c’è un terzo modello. È il modello della cittadinanza globale. L’idea che modernità è anche poter scegliere dove inseguire la propria felicità. Ovunque essa sia. Fosse anche una chimera. Sapendo che potrai sempre tornare a casa. Perché c’è una porta girevole. Per una metà della nostra generazione, quella dei passaporti rossi e blu, è già realtà. Per l’altra metà, quella dei passaporti verdi e neri, è soltanto un miraggio. Nel mezzo c’è una zona grigia. Anzi una zona colorata. È un incredibile intreccio di fili che legano milioni di nuove famiglie euro-africane, euro-asiatiche, euro-arabe, euro-latine, euro-americane divise a metà da un’idea di confine ormai sorpassata dai fatti.
Inutile ingaggiare la Nato. Il flusso non si può fermare. Si può soltanto governare, dirigendolo verso gli uffici consolari e da lì verso gli aeroporti internazionali. Esattamente come avveniva fino alla fine degli anni Ottanta, prima che l’Europa alzasse i muri dei visti senza capire che l’improvviso aumento dell’immigrazione extra-europea non era dovuta all’eccessiva semplicità di rilascio dei titoli di viaggio, bensì alla globalizzazione. Noi di quella globalizzazione e di quelle migrazioni siamo i figli. Orgogliosamente nati nelle nuove città-mondo europee e cresciuti viaggiando.
Caro Gentiloni, per una volta, provate a ascoltare anche noi.
PS: Oltretutto così facendo si libererebbero ingenti risorse per il sistema asilo, oggi chiaramente sovraccarico. Risorse che potrebbero essere dirette a progetti di accoglienza delle famiglie sfollate dalle guerre in Siria, Yemen, Iraq e ahimè in molti altri conflitti…