Avvenire sabato 17 marzo 2018
Andiamo subito al punto: ieri il Consiglio dei ministri non ha approvato alcun decreto “svuotacarceri”, ma appena un quarto della riforma dell’ordinamento penitenziario che il Parlamento, in forza di legge, gli aveva delegato. Prevede la possibilità di un più ampio ricorso alle pene alternative e alla semilibertà, sempre previa valutazione di un giudice e mai per chi è stato condannato per reati di mafia e terrorismo. Non per un eccesso di “buonismo”, come ormai sembra di moda dire, ma perché è dimostrato dai fatti che chi sconta l’intera pena in carcere, una volta uscito commette nuovi reati in più del 60% dei casi; una percentuale che invece scende al 19% tra coloro che fruiscono di misure alternative alla detenzione e crolla all’1% tra gli ex- detenuti che trovano un lavoro. È quindi davvero uno strano Paese, il nostro, dove una riforma nata con l’obiettivo dichiarato di abbattere il tasso di recidiva dei reati comuni arriva al traguardo monca, a legislatura finita e, soprattutto, al termine di un percorso lastricato di paura. La paura che seminano gli allarmisti di professione e i politici che gridano al «salvaladri». Per non far mancare niente a questa nostra Italia dei paradossi, tra l’altro, molti di loro sono gli stessi che fanno professione di iper-garantismo quando il condannato è uno importante, meglio ancora se indossa la loro stessa casacca.
Ma non è stata, questa, l’unica paura a fare da levatrice alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Si è dimostrato pauroso anche il governo, che a lungo ha tergiversato prima di esercitare la delega affidatagli dalle Camere e che ha frenato bruscamente a pochi giorni dalle elezioni politiche. Come se l’esito di queste ultime dipendesse da quel provvedimento. Non era così, ovviamente. E quando si capisce di avere il vento contro, è meglio soccombere senza ammainare la bandiera. Ritirare fuori, adesso, il decreto legislativo, a urne chiuse e a Parlamento in fase di ricambio, è senz’altro meglio di niente. Ma non è la stessa cosa, né per forza politica né sotto il profilo della tempistica, perché il testo dovrà ora tornare alle competenti commissioni parlamentari per un parere non vincolante ma nemmeno del tutto trascurabile. E la commissione parlamentare potrebbe essere una bicamerale “speciale” (costituita in attesa che si formino le nuove) oppure le commissioni della legislatura entrante, con una maggioranza differente da quella che ha voluto e votato la riforma.
Insomma, le incognite sulla strada del provvedimento non sono del tutto estinte. Senza contare che il decreto in questione, pur fondamentale, è soltanto un pezzo dell’impianto originario al quale hanno lavorato i “tecnici” incaricati dal ministro della Giustizia: le altre misure – sui detenuti minorenni e giovani adulti, sul lavoro carcerario e sulla giustizia riparativa – non hanno visto la luce (malgrado il via libera preliminare, quasi “di testimonianza”, del Consiglio dei ministri del 22 febbraio) e difficilmente la vedranno nella legislatura che sta per cominciare, con un Parlamento formato in larghissima parte da forze contrarie.
Fa anche questo, la paura. Ma la paura non è uno stato d’animo che si addice alla giustizia. Non è giustizia quella alimentata dalla paura, perché distorce la realtà. Impedisce di vedere, per esempio, la differenza che esiste tra il livello di sicurezza “percepita” nei talk show televisivi pomeridiano-serali e il livello di sicurezza reale certificato da accurate rilevazioni e statistiche. La compagna ideale della giustizia è invece l’equanimità: la sacrosanta certezza della pena (uno dei cardini dello Stato di diritto) non esclude l’umanità e la ragionevolezza della pena stessa, nel rispetto del dettato costituzionale che ne indica il fine ultimo nella «rieducazione del condannato». Per la sicurezza di tutti.
Danilo Paolini