“Quanti credono di vivere nella luce e sono nelle tenebre, ma non se ne accorgono. Come è la luce che ci offre Gesù? ” (Papa Francesco)
DIO HA MANDATO IL FIGLIO PERCHÉ IL MONDO SI SALVI PER MEZZO DI LUI
Dal Vangelo secondo Giovanni (3, 14-21)
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
RIFLESSIONE
Testo a cura di Papa Francesco
“Quanti credono di vivere nella luce e sono nelle tenebre, ma non se ne accorgono. Come è la luce che ci offre Gesù? La luce di Gesù possiamo conoscerla, perché è una luce umile, non è una luce che si impone: è umile. E’ una luce mite, con la fortezza della mitezza. E’ una luce che parla al cuore ed è anche una luce che ti offre la Croce. Se noi nella nostra luce interiore siamo uomini miti, sentiamo la voce di Gesù nel cuore e guardiamo senza paura la Croce: quella è luce di Gesù”.
(Commento di Papa Francesco, 3 settembre 2013)
ATTUALIZZAZIONE
Testimonianza di Filippo Passantino, giornalista di AgenSIR, organo d’informazione della CEI .
“Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”: queste parole del Vangelo ben si adattano alla vicenda di suor Mariachiara Ferrari, che per trenta giorni in piena emergenza Coronavirus ha indossato il camice e i panni quotidiani della sua vita precedente, quella di medico, specializzato in medicina interna presso il pronto soccorso di Piacenza. “ (…) Quella di Mariachiara è una storia di dono e servizio, di orme seguite, di fiaccole accese, di spoliazione. Di abiti profumati e riposti negli armadi per indossare le vesti della speranza, pregne di sudore e consolazione. Semi sparsi che hanno dato frutto nel giorno della Resurrezione, il 12 aprile, domenica di Pasqua, in cui la dottoressa è tornata interamente alla sua vita da religiosa. Dai primi giorni in ospedale, suor Mariachiara ha capito che l’avrebbe aspettata “un periodo di grande intensità”, durante il quale è emersa “solidarietà, non solo tra i colleghi ma anche con gli ammalati”. “Si è avvertita da subito la consapevolezza che si stava affrontando qualcosa di superiore rispetto alle forze che si avevano – racconta al SIR, Servizio Informazione Religiosa–. Questo ha tirato fuori il meglio del personale sanitario: tutti facevano tutto, dal cambiare i pazienti al recuperare letti, al riorganizzare gli ambienti. Poco contava essere medico, infermiere oppure O.S.S. Gli stessi malati si rendevano conto di questo. Anch’essi cercavano di aiutarci come potevano. Questo ha rivelato una grande fratellanza, una grande solidarietà”. Ritorna più volte nel racconto della religiosa una costante che accomuna i medici in servizio nella cura degli ammalati di Covid-19, il rapporto telefonico “difficilissimo e incessante” con i familiari dei pazienti. “Difficilissimo – racconta – perché l’arrivo delle persone da ricoverare era senza tregua. Non era possibile trovare il tempo per fare qualche telefonata e dare notizie alle famiglie, ma se ne capiva la necessità. Purtroppo, in molte occasioni, sono state telefonate per comunicare la gravità di una quadro che molto probabilmente avrebbe portato alla morte di quella persona. Queste comunicazioni per telefono, nella mia esperienza di medico, non le avevo mai date”, ricorda suor Mariachiara, con tono tremante. “La voce dei familiari che mi chiedevano di dire le ultime parole ai loro parenti, dei figli che mi chiedevano di accarezzare la loro madre… Questi sono stati tra i momenti toccanti che il cuore conserva”. Dall’altra parte, invece, gli stessi ammalati che “non ti chiedevano più ‘dottoressa, come sto andando?’, ma la possibilità di fare una chiamata, di avvisare casa”. Un semplice telefono diventa così una fiaccola accesa nella notte della speranza. “Quando le persone in pronto soccorso ce lo chiedevano, davo loro direttamente il mio cellulare. In particolare, se attaccate all’ossigeno e non in grado di muoversi”. “Io ero bardata, quindi non ero riconoscibile come suora”, riferisce la religiosa, che segnala come “questo aspetto, invece, è stato più importante per i colleghi”. “Negli ultimi istanti di vita di qualche paziente, mi chiedevano di avvicinarmi a lui per dire una parola o pregare con loro. In altre occasioni, sono venuti loro stessi a porre tanti interrogativi rispetto al senso di quello che stava accadendo”. Così, nell’anonimato prodotto dai dispositivi di protezione individuale è fiorita bellezza di una vita consacrata che si fa condivisione del lavoro e della sofferenza. Tanto che, al termine del periodo in ospedale, uno dei direttori sanitari le ha confessato che “quando un mese prima aveva visto arrivare all’ufficio personale una suora, aveva pensato: ‘ci hanno abbandonato tutti, solo il Signore ha ascoltato il nostro grido’”. Nelle parole di suor Mariachiara una convinzione profonda. “Quest’esperienza mi ha messo davanti alla necessità della Resurrezione. Vedere sfilare quei camion dell’esercito senza pensare a un ‘arrivederci’ renderebbe tutto invivibile. Tanti di quei pazienti riconoscevano di non essere soli in quello che stavano vivendo. Avevano una serenità che sostituiva la paura”. (…) Da quest’esperienza la religiosa-dottoressa conserva un insegnamento: “Di fronte all’assurdo, alla mancanza di risposte, abbiamo sperimentato tutti che il senso più autentico della vita rimane quello del dono di sé, lasciandoci svegliare dal bisogno dell’altro – chiosa –. A volte, quando le tenebre sono così fitte che sembra che anche il Padre ci abbia abbandonato, Gesù ci ha mostrato una via: è rimasto inchiodato alla sua Croce. L’amore resta, resta sempre, rimane al suo posto, resiste. Mentre il dolore chiede di essere affrontato e vissuto, non di essere anestetizzato”.
(Filippo Passantino-Fonte: AgenSIR)
PREGHIERA
Donaci, Signore Gesù, di metterci davanti a te!
Donaci, almeno per questa volta, di non essere frettolosi,
di non avere occhi superficiali o distratti
Perché, se saremo capaci di sostare di fronte a te,
noi potremo cogliere il fiume di tenerezza,
di compassione, di amore che dalla croce riversi sul mondo.
Donaci di raccogliere il sangue e l’acqua
che sgorgano dal tuo costato, come l’hanno raccolto i santi.
Donaci di raccoglierli per partecipare
alla tua immensa passione di amore e di dolore
nella quale hai vissuto ogni nostra sofferenza fisica e morale.
Donaci di partecipare a quella immensa passione
che spacca i nostri egoismi, le nostre chiusure, le nostre freddezze.
Di partecipare a quella passione
che lenisce le nostre ansie e le nostre angosce,
che lava la nostra piccola vanagloria, che purifica la nostra cupidigia,
che trasforma le nostre paure in speranze,
le nostre tenebre in luce.
Donaci di contemplare
questa immensa passione di amore e di dolore
che ci fa esclamare con le labbra, con il cuore e con la vita:
«Gesù, tu sei davvero il Figlio di Dio,
tu sei davvero la rivelazione dell’amore».
(Carlo Maria Martini)