Ogni giorno i nostri occhi incrociano quelli di molti fratelli sofferenti che sembrano essere risucchiati dal dolore e dall’angoscia. Lo sguardo di ogni persona cela pensieri e sofferenze che possono trovare ristoro e vera consolazione solo nel cuore di Cristo, nella sua infinita Carità. Non è importante se quegli occhi serbano il segreto intimo di una sofferenza che si incisa nella carne attraverso la fame, la guerra, la povertà, la malattia , … L’invito è a fraci prossimo verso ogni uomo, verso ogni carne ferita, ogni cuore sanguinante …
Siamo chiamati a prenderci cura dei fratelli, a pecepire nella parte più imtima del nostro cuore che siamo chiamati ad esprimere e tradurre con le scelte della vita il nostro personale e prezioso I care nei confronti delle vicende dell’uomo, di ogni uomo. Siamo invitati a condividere le gioie e i dolori degli uomini e delle donne del nostro tempo. La cura più che una tecnica o una virtù tra le altre, rappresenta un’arte, un paradigma nuovo di relazione verso la natura e verso le relazioni umane, amoroso, diligente e partecipativo.
Riprendo alcune idee collegate ad atteggiamenti che devono essere presenti in chi si prende cura e a cuore chi soffre. Vediamone alcuni tra gli altri.
Compassione: la capacità di mettersi al posto dell’altro e provare le stesse emozioni. Non trasmettergli l’impressione che chi soffre è solo ed abbandonato al suo dolore.
Toccare, come essenza della carezza: toccare l’altro è restituirgli la certezza che appartiene alla nostra umanità. Il tocco-carezza è una manifestazione di amore. Molte volte, la malattia è segno che la persona sofferente vuole comunicare, parlare ed essere ascoltato. Vuole arrivare a identificare un senso nella malattia. Chi si fa prossimo lo può aiutare ad aprirsi e a parlare. Un’infermiera è testimone che «quando ti tocco, io ho cura di te; quando mi prendo cura di te, ti tocco; se sei una persona anziana ho cura di te quando sei stanco; ti tocco quando ti abbraccio; ti tocco se stai piangendo; mi prendo cura di te, quando non hai più la forza di camminare».
Assistenza intelligente: colui che soffre ha bisogno di aiuto e chi gli è vicino vuole prestare aiuto. La convergenza di questi due movimenti genera la reciprocità e il superamento del sentimento presente in una relazione diseguale. L’assistenza deve essere giudiziosa: tutto quello che il malato può fare, incentivare a farlo e assisterlo soltanto quando ormai non può più fare da da solo.
Ridargli fiducia nella vita: ciò che il malato desidera di più è ricuperare la salute. E allora appare decisivo restituirgli fiducia nella vita; nelle sue energie interiori, fisiche, psichiche e spirituali, perché esse attuano come una vera medicina. Incentivare i gesti simbolici, carichi di affetto. Non raramente i disegni che una bambina porta al padre malato, suscitano in lui tanta energia e commozione che equivale a un cocktail di vitamine.
Fargli accettare la condizione umana. Normalmente chi soffre si interroga perplesso: «Perché tutto questo è capitato a me, esattamente adesso che tutto nella vita stava andando per il verso giusto? Perché, quand’ero giovane, mi sono ammalato di una malattia grave»? Tali domande rimandano a una riflessione umile sulla condizione umana, a qualsiasi momento, esposta a rischi a vulnerabilità insperate. Chi è sano sempre può diventare malato. E tutte le malattie rimandano alla salute che è il maggiore valore di riferimento. Ma non riusciamo a saltare sulla nostra ombra e non c’è nient’altro da fare che accogliere la vita così com’è: sana e malata, riuscita o andata a monte, ardente di vita e con disposizione ad accettare eventuali malattie e al limite la stessa morte. E’ in questi momenti che chi è sofferente fa profonde revisioni della vita. Riscattano allora, valori quotidiani che prima nemmeno percepivano, ridefiniscono il loro disegno di vita e maturano. Finiscono per avere pace.
Accompagnarli nella grande traversata. C’è un momento inevitabile in cui anche la persona più vecchia del mondo e noi tutti dobbiamo morire. E’ la legge della vita, soggetta alla morte: una traversata decisiva. Essa deve essere preparata per tutta una vita guidata da valori morali generosi responsabili e benefici. Ma per la gran maggioranza, la morte è sentita come un assalto o un sequestro generando così sentimenti di impotenza. E allora si rende conto che, finalmente, deve abbandonarsi.
La presenza discreta, rispettosa di qualcuno che gli prende la mano, sussurrandogli parole di conforto e di coraggio, lo invitano ad andare incontro alla luce e al seno di Dio che è padre e madre di bontà e possono fare sì che il moribondo esca dalla vita sereno, ringraziando per l’esistenza che ha ricevuto. Sussurrargli all’orecchio, se possiede un referente religioso, le parole consolatrici di Giovanni: “se il tuo cuore ti accusa, sappi che Dio è più grande del tuo cuore (1ªGv 3,20)”. Può abbandonarsi tranquillamente a Dio, il cui cuore è di puro amore e misericordia. Morire è cadere nelle braccia di Dio.
Qui la cura si rivela molto più come arte che come tecnica e suppone nel discepolo del Signore densità di vita, sentiré spirituale e uno sguardo che va oltre la morte.
Raggiungere questo stadio è una missione che ognuno di noi deve cercare per essere pienamente servitori della vita. Per tutti valgono le parole sagge: «La tragedia della vita non è la morte, ma quello che lasciamo morire dentro di noi quando viviamo».