Celebrazione apertura anno pastorale
Chiesa di San Nicolò, 18 settembre 2015
Premessa. Questo nuovo anno pastorale, di cui celebriamo questa sera l’apertura, è un grande dono che viene affidato dal Signore alle nostre mani perché possa essere abbondante di frutti di carità e di vita nuova per ogni uomo. Papa Francesco ha voluto che in questo tempo si celebri l’Anno Santo della Misericordia. Questa intuizione profetica tocca le corde più profonde di una umanità che è disorientate e in balìa di chi grida più forte. Il linguaggio che accompagna le nostre giornate è sempre più violento e disumano. La grande opera di misericordia sta proprio nel riconsegnare all’uomo la bellezza e la dignità della cifra umana, è impregnare di umanità spazio e tempo.
Papa Francesco ci ha regalato una immagine molto forte dicendoci che «La Chiesa oggi possiamo pensarla come un “ospedale da campo”. C’è bisogno di curare le ferite, tante ferite! Tante ferite!». C’è bisogno di una Chiesa che cura le ferite, che si piega sull’uomo, che non ha paura di essere contagiata, che sceglie la prossimità dei peccatori e di tutti coloro che hanno bisogno di salvezza. Papa Francesco insiste sulla doverosa “prossimità”, sulla vicinanza, sul farsi prossimo alla carne del fratello, che è carne umana, di uomini e donne piagati dalla sofferenza e dal peccato, bisognosi di qualcuno che si prenda cura di loro. Ma a nessuno di noi sfugge che questo è semplicemente lo stile di Gesù nel Vangelo.
Partendo proprio dal significato della parola misericordia che significa avere cuore, avere viscere di madre che si consuma tutta per alimentare la vita del proprio figlio, vivere un anno della misericordia significa prima di tutto avere a cuore la vicenda dell’uomo, la vicenda di quell’uomo che cammina al mio fianco, è condividerne le gioie e i dolori. Misericordia è maturare come diceva don Lorenzo Milani “I Care”, mi interessa di te, contro la logica del “me ne frego”, per estirpare quel cancro che è la globalizzazione dell’indifferenza, che è l’affermazione indiscussa dell’individualismo sul bene comune. Vivere con e nella misericordia è strada che porta alla libertà, alla vita piena, che ci porta a prendere il largo vincendo la tentazione delle rotte di piccolo cabotaggio, superando le paure che ci portano a rimanere impantanati nelle paludi delle esitazioni e dei rimpianti.
Lettera agli Efesini. Con molta umiltà condivido alcune semplici riflessioni che sono maturate rimanendo in ascolto della Parola che ci è stata offerta in dono questa sera.
Come ci ha ricordato San Paolo tutti quanti siamo esposti alla mentalità del mondo. Ognuno di noi ogni giorno deve confrontarsi con quell’uomo vecchio che lo abita e che avanza sempre le sue pretese e suggerisce scorciatoie per assaporare il frutto della gioia e della libertà. Le voglie della carne e i pensieri cattivi ci abitano e ci portano fuori strada. E tutto questo lo tocchiamo con mano. Stiamo vivendo un tempo in cui sovente l’oscurità della notte si fa sentire con tutta la sua forza. E due sono le principali fonti di oscurità, da cui origina il buio della notte: l’insicurezza e la sfiducia. Da un lato, riflettono la paura dell’altro: dello straniero, ma anche delle persone intorno a noi e delle istituzioni. Insieme, questi sentimenti opprimono lo spazio e il tempo. O meglio: lo spazio ci opprime, perché la globalizzazione ci schiaccia; ma al tempo stesso lo spazio si restringe sempre di più. Per cui viviamo una realtà senza mediazioni, fra noi e il mondo. D’altra parte, la sfiducia – insieme all’insicurezza – minimizza e inibisce il futuro. C’è il rischio molto concreto di vivere senza speranza e di conseguenza di ripiegare su stessi, di non aspirare ai carismi più grandi, di declinare ogni responsabilità nel servire e vivere Carità, e questo perché facciamo fatica a riconoscere il Per Primo di Dio, il per primo della Sua Miserciordia. Questa insicurezza e sfiducia è alimentata da alcune condizioni che non possiamo sottovalutare: la scomparsa del “prossimo”, la desertificazione sociale e ambientale (l’altro non è un mistero da scoprire, ma un ostacolo da superare, un nemico da vincere); la sostituzione dei rapporti diretti con la comunicazione tecnologica (si anestetizzano le relazioni e dinanzi alle difficoltà si cerca rifugio in mondi virtuali, promettenti ma non reali); la mediatizzazione e la personalizzazione della politica, che favoriscono una sorta di populismo mediatico (si parla alla pancia della gente, non al loro cuore); l’allungamento della notte per nostra stessa iniziativa (l’ambiguità è il terreno della sopravvivenza, ma non della vita vera). Tant’è vero che c’è una tendenza a vivere nella notte.
Secondo la logica del mondo, dinanzi a questo appiattimento dell’orizzonte, l’uomo cerca di sopravvivere anestetizzando il suo cuore e la sua coscienza. Cerca di cogliere il massimo giorno per giorno, rinunciando al desiderio di un mondo nuovo. È la sfiducia che porta alla morte del cuore. Dinanzi a queste tenebre il Signore ci offre la luce della sua misericordia. Ci ricorda con le parole del salmo 138 che ci ha fatti come un prodigio e che in lui la notte è chiara come il giorno. La misericordia e il per primo di Dio ci aiutano a recuperare il valore e la dignità di ogni singola persona, che è e resterà sempre una terra sacra. L’amore di Dio ci guarisce in profondità, ci aiuta a comprendere che nulla è a caso, ma che tutto è dono suo, è Grazia. Quando ci percepiamo amati, voluti, desiderati allora riscopriamo la bellezza della dignità della vita umana e si sprigionano dal nostro cuore potenzialità d’amore impensabili. Quando la misericordia, l’amore di Cristo Crocifisso e Risorto, fa breccia nel nostro cuore allora sperimentiamo nella semplicità della vita quotidiana che Nulla è impossibile a Dio. La misericordia di Dio, che passa anche attraverso le nostre fragili e deboli mani, è veramente il farmaco che può ridare forza e luce a questa nostra umanità.
Vangelo secondo Matteo. È in questa prospettiva allora che ci vengono anche degli spunti interessanti dal brano evangelico che abbiamo ascoltato. Vorrei soffermarmi su due luoghi dove prende forma lo straordinario incontro tra la misericordia di Gesù e la verità di Matteo: sono il banco delle imposte e la tavola della mensa.
Il banco delle imposte. Al banco delle imposte sta seduto da una parte l’esattore e dall’altra il debitore. Gesù con la sua misericordia rompe questo schema e aiuta a comprendere che ognuno ha bisogno di essere guarito in profondità dal suo amore. Da una parte Matteo, l’esattore, che è chiamato ad uscire dalla logica delle sue sentenze senza appello, dalla logica del proprio tornaconto personale, da una sostanziale ambiguità. È chiamato da Gesù a ritrovare la libertà del cuore e delle relazioni, imparando a scoprire il valore di chi gli sta attorno. L’uomo non può essere cosificato, né ridotto ad un capitolo di spesa. Matteo è invitato a lasciare quel banco delle imposte, segno di ingiustizia e sofferenza, che era diventato una gabbia asfissiante non solo per i debitori, ma anche per lui. Dall’altra parte ci sono i debitori che continuano ad essere schiacciati dalle imposte. La misericordia di Dio ha come fine quello di ridonare libertà a chi, per svariante circostanze, continua a pagare delle tasse ingiuste e salate alla vita. Ci sono milioni di persone che continuano a pagare un prezzo ingiusto e troppo alto, a volte con il proprio sangue. Abbandonare questo banco delle imposte non è questione di carità, ma di giustizia. Accompagnare Matteo e i debitori di turno è invece opera di misericordia.
La tavola. La tavola è il luogo della convivialità, della familiarità. È luogo dove si vive accoglienza e i rapporti sono intrisi di fiducia. La tavola riduce le distanze e fa sì che ci sia la condivisione di una prospettiva e di un futuro comune. È segno di una misericordia che unisce e traccia sentieri di riconciliazione e comunione. Ma la tavola è segno anche di casa, di familiarità. Indica come c’è posto per tutti e come facciamo parte dell’unica famiglia umana. La tavola è luogo dove l’ospitalità si apre alla conoscenza, alla sospensione del giudizio, al desiderio di costruire relazioni libere e solide. La tavola è luogo dove si costruiscono relazioni libere e liberanti.
Misericordia io voglio e non sacrificio. Questa espressione racchiude in sé proprio questo passaggio dal banco delle imposte alla tavola, cioè dalla schiavitù dei propri bisogni alla libertà delle propria verità. È passare da una logica economica ad una logica evangelica e cioè pienamente umana. In concreto significa imparare a guardare alla realtà del mondo con gli occhi di Dio, cominciando ad assumerci le nostre responsabilità e smettendola di inchiodare una parte dell’umanità al banco delle imposte. Dobbiamo abbandonare il tavolo delle ipocrisie per permettere a ciascuno di gustare la fragranza e la dolcezza delle misericordia. Il Signore ci chiede di camminare sulla strada della conversione per avere un cuore carico di misericordia. Il Signore non vuole sacrifici esteriori ed è stanco di tutti quei sacrifici che i poveri e i sofferenti continuano a subire nella loro carne per l’indifferenza e l’ingiustizia procurata da altri. Basta morti innocenti, basta a momenti di commozione che non smuovono il nostro stile di vita, le nostre scelte quotidiane.
In questa direzione mi permetto anche di suggerire due strade per declinare quanto ascoltato in opere di misericordia. Prima di tutto credo sia importante che sappiamo abitare il nostro tempo, trovando luce e forza nella Parola. Abbiamo il dovere di abbassare i toni, di custodire nella preghiera tutte quelle persone che si vogliono rendere invisibili, di ridare dignità e ascolto a tutte quelle persone che sono state e vengono continuamente calpestate. Come farlo ? Pregando, prendendoci a cuore la situazione degli altri e mettendoci del nostro in ordine di tempo, di risorse. È necessario sporcarsi le mani. Una seconda indicazione è quella di aiutare chi è in difficoltà a passare dal banco delle imposte alla mensa della vita nuova, della resurrezione. Una declinazione di questo può essere l’accoglienza di un profugo in famiglia o in parrocchia, attraverso il progetto Rifugiato a casa mia. Ma anche attraverso altre azioni ed attenzioni verso i poveri che comincino a sgretolare il muro dell’indifferenza e dell’individualismo che ci rende estranei l’uno all’altro. È il tempo della misericordia ed il Signore interpella proprio noi attraverso il grido di molti fratelli che vivono drammi di dolore. Dinanzi a questi cuori che ci urlano: ho fame, ho sete, sono nudo, sono malato, sono straniero, sono carcerato non solo non possiamo rispondere che non è affare nostro, ma non è possibile neanche rinviare questo incontro con il Signore al momento in cui tutto ci sarà chiaro o avremo elaborato in maniera precisa i nostri progetti. Il Signore ha bisogno dell’accoglienza delle nostre mani e, mentre si avvicina a noi, rischia di trovarci invischiati nelle nostre progettazioni e nelle nostre finezze pastorali. Mentre Lui bussa alla nostra porta, noi gli diciamo di aspettare perché dobbiamo ultimare qualche nostro progetto al computer.
Misericordia io voglio e non sacrifici significa credere fermamente che un mondo migliore è possibile nella misura in cui ci affidiamo alla misericordia del Padre e non contiamo solo sulla forza del nostro buon cuore. Il Signore ci doni un cammino ecclesiale alla luce della Sua Misericordia dove ciascuno, specie i più poveri, possano sperimentare il sorprendente dono del Bello, del Buono, del Vero, che è la Misericordia, che è Cristo Signore.