Ci stiamo avvicinando alla conclusione di un altro anno pastorale, un tempo di grazia nel quale il Signore ci ha aiutato a sperimentare la forza del suo amore. È bello sperimentare come tutto quello che circonda e che abbiamo vissuto è dono di Dio. Il nostro cuore di ricolma di stupore e meraviglia dinanzi al miracolo della vita e alla bellezza dell’Amore che ridona dignità e speranza ad ogni cuore ferito e sofferente. Dinanzi alle scadenze delle nostre umane programmazioni e delle nostre fredde contabilità, il tempo ci risulta spesso tiranno. L’ansia dei risultati ci porta a vivere con l’acceleratore schiacciato e così facendo rischiamo di smarrire il senso autentico dell’esistenza e del tempo che ci è donato. È importante guardare allo scorrere del tempo con occhi diversi. Cogliere la bellezza e la ricchezza dell’amore che impregna di gioia e speranza ogni istante. Ogni frammento di vita che ci è donato e che abbiamo incrociato, ci aiuta a cogliere come l’artista Dio è sempre all’opera nella realizzazione di quel grande capolavoro che è comunione, pace, giustizia, gioia piena per ogni uomo. Lo scorrere del tempo, allora, non ci fa cadere in ansia, ma ci aiuta a cogliere le continue opportunità di bene che ci sono offerte.
Credo che il cammino di quest’anno pastorale si possa riassumere in tre parole molto preziose: grazie, scusa, ti voglio bene. Prima di tutto la gratitudine per il meraviglioso intreccio di vita, di storie, di speranze e di fatiche che ha permesso ad operatori pastorali, credenti e a chi è nel bisogno di non sentirsi “fuori tempo o fuori giri”, ma di sperimentare la letizia di sentirsi a casa, di abitare la storia con la dignità e la fiducia di chi accetta la responsabilità di essere protagonista nello scrivere una storia nuova. In secondo luogo l’umiltà di riconoscere il proprio limite e di chiedere perdono quando nella nostra superficialità non riusciamo ad ascoltare il fratello, a tendergli la mano, a dare voce al suo dolore. È chiedere scusa quando prevale in noi la logica dell’indifferenza e dell’anestetizzare ogni fatica, soffocando ogni slancio profetico di denuncia. Infine la logica della carità che annulla le distanze e che porta a farci carico gli uni degli altri, a percepire che la storia dell’altro è profondamente intrecciata con quella di ciascuno. Il racconto di questo frammento di bene vissuto, vuole ,prima di tutto, far sì che al cuore di ciascuno arrivino queste parole di fiducia e speranza: grazie, scusa, ti voglio bene.
Una icona che riassume tutto questo è la lavanda dei piedi. La tensione spirituale del lavare i piedi sta tutta in una passione interiore, in un legame di umanità che ci fa essere e restare là dove l’umanità è lacerata. È in questi luoghi che cerchiamo di portare una dimensione di condivisione, una volontà di ricerca di ciò che vale veramente, la consapevolezza di essere tutti, ma proprio tutti, figli di un medesimo Padre, chiamati alla fraternità anche in un mondo contemporaneo così frammentato e diviso. Solo quando hanno asciugato le caviglie dei fratelli, le nostre mani potranno fare miracoli sui polpacci degli altri senza graffiarli. E solo quando sono stati lavati da una mano amica, i nostri calcagni potranno muoversi alla ricerca degli ultimi senza stancarsi. La lavanda dei piedi ci invita a recuperare il valore della reciprocità. Il paradosso dell’esperienza cristiana è Gesù che prima si nasconde e poi si rivela in quei volti e in quelle storie di vita segnate dal dolore infinito. Ed è verso le persone che vivono queste esperienze che dobbiamo chinare il capo, verso i piedi. È un richiamo per la Chiesa ad essere sempre al servizio, ad essere, come diceva don Tonino Bello, “la Chiesa del grembiule”. E allora proprio in questo mondo spesso chiuso nelle sue speranze tristi, nei linguaggi di chiusura, negli egoismi corporativi, deve farsi largo, deve trovare delle fessure quel respiro e quella vita di carità che è sempre eccedente, che non fa calcoli, non si misura sui risultati, diventa sapiente e saggia perché scruta, incontra, opera anche avvolta nel silenzio. Solo una Chiesa che ascolta chi abita “i sotterranei della storia” può osare anch’essa a lavare i piedi.