In questi giorni, ancora una volta, ho fatto l’amara esperienza di come la “parola data” stia sempre più perdendo il suo valore sacro. Dinanzi alle fatiche e alle miserie di molte persone, ho cercato, con i miei limiti e la mia pochezza, di tessere una rete con le diverse realtà del territorio. Nel cuore ho sempre coltivato la consapevolezza che insieme, con il contributo di ciascuno, anche ciò che sembra impossibile può diventare realtà. Sono convinto che non c’è ostacolo che non si possa superare con il sostegno di tutta la comunità. Però ho sperimentato che non è così semplice, né così scontato.
Il primo atteggiamento che ho riscontrato è stato quello di un senso generale di impotenza e talvolta anche di indifferenza. Dinanzi al fratello sanguinante, fa molto male vedere ed incontrare cuori chiusi. È molto triste constatare come molti continuano a passare oltre, a non fermarsi perché convinti che la sofferenza e la povertà è questione che non li riguarda, è affare di altri. La logica dello scarto e dell’indifferenza ha indurito il cuore di uomini e donne che pensano esclusivamente al loro bene individuale. A tutto questo si aggiungono, sovente, anche scelte da parte delle istituzioni che sembrano abbandonare al proprio destino quanti sono scivolati nelle paludi della vulnerabilità e dell’esclusione sociale. Dietro a vuote promesse, a parole svuotate della loro dirompente carica di impegno, restano situazioni drammatiche di persone avvolte dall’oscurità della disperazione e della solitudine. Passano i giorni, i mesi, a volte gli anni e chi è scivolato ai margini resta inchiodato alla sua situazione perché non si trovano risposte, perché mancano le risorse ….. perché l’individualismo, anche a livello istituzionale e politico, ci ha annebbiato il cuore e indurito la coscienza. Si lasciano i “poveri” in balìa di una attesa snervante che tante volte non avrà risposta. La solitudine e le difficoltà inghiottono molte persone e quando si consumano drammi atroci, allora inizia il falso teatrino in cui si ricercano responsabilità, in cui si va alla ricerca dei colpevoli, in cui vestire per alcuni istanti una decorosa attenzione (quanto falsa) all’uomo e alla sua dignità. Quanta ipocrisia regna nelle nostre relazioni e nelle nostre comunità. Abbiamo bisogno di ritrovare la cifra dell’umano, il valore sacro e profondo della parola data. Questo vale per il singolo cittadino, per le comunità e per le istituzioni.
Ogni giorno assistiamo sempre più a un fenomeno apparentemente innocuo ma che, in realtà, è alla base di tante problematiche. Questo fenomeno consiste nell’incapacità di mantenere la parola data. In passato il valore di una persona veniva misurato da quanto questa faceva corrispondere le sue parole ai fatti. È facile rendersi conto di come le parole hanno senso solo in quanto “simbolo” di qualcosa di reale o che, quantomeno, si crede reale. Nel momento in cui, invece, le parole perdono questa loro funzione di “rappresentanti della realtà” allora ecco vederle diventare, come si suol dire, “solo parole”, semplici suoni che alla lunga risultano particolarmente fastidiosi anche solo da sentire. E svuotandosi di significato, le parole pronunciate svuotano di senso, valore e utilità anche colui o colei che le pronuncia. Ciò di cui oggi abbiamo fortemente bisogno per far tornare a funzionare le cose sia nella vita pubblica che in quella privata non sono altre leggi e leggine o altra gente che tira fuori idilliache soluzioni lontane dalla realtà, bensì di una forte educazione alla coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Perché solo facendo così emergono le vere soluzioni di cui si ha bisogno.
In questo contesto la Chiesa deve essere, come affermava con efficacia don Tonino Bello, “ala di riserva” e compagna di cammino dell’umanità. Non giudice di essa. Certo, una Chiesa che accetta di abbracciare il fratello, qualsiasi fratello, e aiutarlo a volare rischierà di commettere sbagli e di scegliere soluzioni sbagliate, oppure di parlare con un linguaggio esigente per la sensibilità prevalente. Sarà Chiesa a tratti scomoda, che rifiuta la logica del potere, di qualunque potere si tratti, per abbracciare la logica del servizio. «Una Chiesa chiusa – ha affermato papa Francesco – è ammalata. La Chiesa deve uscire verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano. Preferisco mille volte una Chiesa incidentata, piuttosto che chiusa e malata». Ma per fare questo c’è bisogno di coraggio. «Il coraggio – scriveva don Tonino – di impegnarsi con chi si impegna lealmente a rimuovere situazioni di violenza e di ingiustizia…… Il coraggio che, senza darci le smanie del guerrigliero, ci abilita a non aver paura dei potenti della terra».