Riscoprire la fragilità - CARITAS TARVISINA

Riscoprire la fragilità

«La fragilità sperimentata in questo tempo, ci ridoni di ritrovare l’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio, ci aiuti a riscoprire la bellezza di una storia che si può reggere solo affermando la scelta prioritaria del bene comune su quello individuale (…) Ne usciremo insieme se tutti faremo la nostra parte.»

Stiamo vivendo un tempo al quale non eravamo più abituati, in cui prendere contatto della nostra fragilità e dare cittadinanza alle nostre paure. In punta di piedi restiamo in ascolto di questa storia per ricercare un senso al tempo che stiamo vivendo.
Anche dal male possiamo cogliere un bene.
C’è una lezione da imparare ed una prova da superare insieme: stiamo toccando con mano quanto siamo fragili, quanto abbiamo bisogno della solidarietà reciproca, siamo tutti nella stessa barca e in questo momento ce ne accorgiamo di più.
C’è il contagio del male, ma c’è anche il contagio del bene.
Stiamo vivendo una Quaresima che è più Quaresima di altre volte. Siamo invitati a tenere il nostro sguardo fisso su Gesù, da lui abbiamo tutto da imparare. Dal suo modo di fare possiamo trovare noi stessi un modo migliore per vivere da discepoli anche nel tempo del coronavirus. È necessario pensare agli altri, in particolare ai più deboli. Ci sono state chieste delle rinunce alla nostra libertà ed anche alla nostra pratica religiosa. Ma serve grande senso di responsabilità. E pensare agli altri è quello che ci chiede Gesù. Le costrizioni e le imposizioni di questi giorni possono diventare la riscoperta di una grande opportunità e risorsa. L’epidemia ci costringe nelle nostre case ed offre a qualcuno la possibilità di dialogare e di pregare di più, di leggere e ascoltare la Parola di Dio. C’è anche il rischio di non capirsi, di litigare, di fare fatica. Ma ci auguriamo che sia l’occasione per ritrovare le coordinate dello stare insieme, del condividere il tempo della vita.

“Il sole tornerà a splendere sulle nostre campagne e le nostre colline”, ci ricorda una frase di Don Camillo: siamo chiamati a vivere questo tempo con speranza. In questa Quaresima silenziosa da più cuori si leva il desiderio della messa: intanto coltiviamo il desiderio dell’incontro. Ne sentiamo la necessità e la bellezza proprio ora che ci manca, ma il Signore non ci lascia soli. Se da un lato proviamo la fragilità della natura umana, dall’altro sperimentiamo la forza della solidarietà umana. Condividiamo le paure e la battaglia contro il nemico comune: la malattia e la morte. Siamo fragili e mortali. Preghiamo perché la vita abbia sempre il sopravvento sulla morte anche quando essa si presenta a noi come angoscia. Siamo solidali gli uni con gli altri, a partire dal compiere alcuni gesti quotidiani di prudenza e rinuncia alla nostra libertà per il bene di tutti.

Ne usciremo insieme se tutti faremo la nostra parte.
Sia allora questo un tempo di riflessione, di preghiera, ma soprattutto di scelte solidali, capaci di proteggere la vita dell’altro, la collettività, il bene comune. È il tempo per custodire e promuovere la vita, avendo l’umiltà di ritrovare le radici della nostra memoria e il coraggio di disegnare nuovi orizzonti per il futuro. Questo tempo “lento” ci doni la bellezza di riscoprire l’uomo, le relazioni, ogni piccolo frammento di vita. Viviamolo come appello ad un vero cambiamento e non come una parentesi che deve passare al più presto.

Condivido con voi queste parole dell’attore Ascanio Celestini, che ci aiutano a sostare dentro di noi, a ritrovare quella cifra dell’umano che avevamo smarrito nei nostri deliri:
Qualche giorno fa era il secolo scorso. Non il ‘900 con le sue rivoluzioni, lotte operaie, letterature sperimentali, cinema neorealista, sensi di colpa post coloniali, minigonne e rock’n roll. Qualche giorno fa avevamo l’impressione che il disastro fosse prerogativa dell’Altrove. In quel posto lontano ci stavano le guerre. Ogni tanto ci mandavamo i nostri soldati, ma noi ci tenevamo a distanza. Anche quando morivano. Anche quando erano i nostri fratelli. Della loro fine potevamo vivere il funerale di stato, tragico e igienico, non il pericolo di muoversi sotto le bombe. Nell’Altrove c’erano i poveri veri. Quelli senza niente. Senza nome. Gli esseri-numeri che cercavano di entrare a casa nostra. I governi ci aiutavano a tenerli fuori dalla porta e dai porti. Da questa parte del mondo c’eravamo conquistati il diritto di vivere la Storia come una meritata vacanza. Noi avevamo vissuto due guerre. Noi eravamo morti ad Auschwitz, noi avevamo pensato un mondo migliore, libero e rispettoso della vita umana. Persino il disastro ecologico, pur avendolo provocato, era un incidente del quale potevamo vantarci di essere consapevoli. Questa consapevolezza ci bastava. Ci rendeva emancipati. Dalla nostra vacanza guardavamo l’Altrove. In quel posto vivevano gli Altri. Vivevano e morivano come un tempo succedeva anche a noi. Nascevano come conigli, giravano scalzi, dormivano nelle baracche, si ammalavano e crepavano di malattie stupide che avevano colpito i nostri padri e i nostri nonni. Ma adesso noi non eravamo più preoccupati per queste disgrazie. Da questa parte del mondo le loro malattie mortali ci facevano sorridere, erano curabili con medicine in vendita nella farmacia sotto casa. Quegli Altri scappavano come un tempo eravamo scappati noi. Facevano viaggi infernali e arrivavano davanti alle nostre porte di casa. E noi ci dividevamo in due fazioni: quelli che mettevano il catenaccio e gli tiravano una secchiata d’acqua in testa e quelli che li accoglievano con democratico paternalismo. Noi continuavamo ad essere Noi. Loro erano gli Altri. Anche quando entravano dalla nostra parte del mondo si portavano il confine tatuato sul corpo. Nel secolo scorso che è durato fino a qualche giorno fa ci siamo presi il lusso di starcene in vacanza protetti da un confine trasparente, ma impenetrabile. Poi è arrivato il virus. Ha viaggiato in business class. È passato da un corpo all’altro durante le riunioni dei manager. È scivolato tra le dita nelle strette di mano pacifiche. È stato in crociera. Ha fatto il giro del mondo senza passaporto, ignorando le differenze di classe e di genere. Il parassita non fa differenze. Non parla nessuna lingua, ma comunica con un linguaggio universale. Ogni parte del nostro corpo socializza con quel piccolo essere bisognoso di entrare nella vita degli altri per sopravvivere. Nella vita di tutti. Solo Noi non riusciamo a capirloÈ indifferente alle nostre leggi e ai nostri confini, al denaro dei ricchi e alla miseria dei poveri, all’amore coniugale e a quello clandestino, alle religioni e alle loro certezze, alla paura per la morte, all’incertezza per il futuro, alla speranza che cerchiamo nel sapone col quale ci laviamo le mani.

La fragilità, sperimentata in questo tempo, ci ridoni di ritrovare l’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio, ci aiuti a riscoprire la bellezza di una storia che si può reggere solo affermando la scelta prioritaria del bene comune su quello individuale.


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