Silenzio e fiducia per un vero cambiamento - CARITAS TARVISINA

Silenzio e fiducia per un vero cambiamento

 

Da pochi giorni sono rientrato da una missione di quindici giorni in Mali, dove come Caritas Tarvisina stiamo collaborando alla costruzione di una scuola ad indirizzo agro pastorale in un villaggio a 200 chilometri dalla capitale Bamako. Il Mali è un paese meraviglioso, carico di profumi, odori e colori che affondano le loro radici in una tradizione e cultura antica. Nei giorni della mia permanenza si è svolto il ballottaggio per l’elezione del presidente. In modo chiaro ed evidente ho potuto sperimentare come la bellezza di quel paese, di quelle persone sia segnata dalla ferita lacerante della corruzione, dell’individualismo che annebbia il senso del bene comune. Ho potuto constatare, purtroppo ancora una volta, come la povertà e la precarietà di molti è conseguenza della scelta di pochi che sono sempre i più forti. Qualcuno in modo superficiale continua a nascondersi dietro a degli stereotipi dicendo: “questa è l’Africa e non cambierà”.

Mentre ero in Mali il nostro paese è stato attraversato dal dramma del crollo del ponte Morandi a Genova e dalla triste vicenda della nave “Diciotti”. Due tristi pagine che, pur nella loro diversità, hanno segnato per sempre la vita di molte persone. Dinanzi a tutto questo è stato veramente “ignobile” il teatrino della dialettica politica. Si è continuato a fare campagna elettorale sulla pelle della povera gente, sul cuore lacerato di chi ha drammaticamente perso i suoi cari. Anche in questo caso qualcuno in modo superficiale continua a nascondersi dietro a degli stereotipi dicendo: “questa è l’Italia e non cambierà”.

Un cambiamento è possibile, ma soprattutto è necessario. Di certo non lo farà questo governo che è affetto dalla sindrome del gambero. La politica e non solo, deve ritrovare in tutto e per tutto la cifra dell’umano. Non credo che servano chissà quali competenze per comprendere che dinanzi al dolore innocente, dinanzi alla morte la prima cosa da vivere è il silenzio, è il rispetto. Non si può continuare a caricare di odio, di vendetta, di rivalsa ogni episodio della vita. La politica ha la responsabilità di seguire la rotta dell’equilibrio e della giustizia, non può lasciarsi fagocitare dagli impulsi della pancia, né dalla ricerca di ampliare il proprio consenso sui bisogni e sul disorientamento di molte persone.

Quello dell’immigrazione è un problema complesso che non si può affrontare con risposte banali e frasi fatte. È complesso sia all’interno, cioè nel nostro amato Paese, come pure in Europa, perché richiede la capacità di soccorrere, di accogliere, ma anche di ascoltare i cittadini quando esprimono disagio. Occorre farlo con sapienza, perché non prevalga la reazione ideologica, aggressiva, che in fondo finisce per alimentare divisioni. Ma è un problema complesso soprattutto all’esterno, penso in particolare all’Africa, da dove centinaia di migliaia di persone fuggono da conflitti, carestie, da un contesto nel quale la violenza e il sopruso, per interessi politici ed economici, sembrano talvolta non lasciare speranza. Si tratta di persone che provengono o attraversano “Paesi polveriera”, come sono la Libia, il Niger, il Sudan ed altri. Senza guardare alla globalità della questione, credo che finiremo per peggiorare le cose, per creare nuovi muri che alimenteranno nuove tensioni. Inoltre è necessaria una maggior pacatezza nei toni. Questo non  vuol dire debolezza, non vuol dire indietreggiare davanti ai problemi. Certo, vanno capite anche le ragioni di chi nella propria visione e narrazione privilegia i problemi e le ricadute interne del fenomeno migratorio, ma quella che ci occorre è una visione del tutto, dell’intero. Senza questa vivremo in una situazione di contrapposizione permanente, che dimentica le vite umane in gioco e corrode le nostre società. È questo un cambiamento di rotta di cui c’è bisogno.

In questo contesto segnato da poca lucidità e da un grande senso di pessimismo, credo sia necessario trovare le ragioni della speranza e della fiducia, che sono custodite dalla vita e dalle scelte di molte persone semplice. A tale proposito riprendo alcune riflessioni di un articolo molto bello di Flavia Perina che dona speranza in un domani e in un futuro migliore. “C’è questa Italia senza bandiere di partito, l’Italia dei preti e dei militari, della protezione civile e degli alti burocrati, dei diplomatici, dei pubblici funzionari, che all’improvviso si prende la ribalta, risolve l’irrisolvibile e senz’altro si merita il nostro grazie: senza di loro, senza il loro lavoro preciso, non subordinato alla convenienza del momento e all’andamento dei sondaggi, saremmo davvero nei guai. Chiesa e Guardia Costiera, in particolare. Sono loro ad aver condotto e sbrogliato l’affaire Diciotti, e mai come in questa occasione – sulle banchine di Catania – tutto il resto, a cominciare dai politici con la mascherina o in perenne diretta web, è sembrato irrilevante. Sono stati loro a salvare, tranquillizzare, curare, ed è grazie a loro che i poteri dello Stato – governo, parlamento, magistratura – hanno potuto imbastire ciascuno il suo show mediatico sicuri che del problema “vero” qualcuno stava occupandosi. L’Italia senza bandiere è la stessa che spostava le macerie e trovava soluzioni a Genova, e prima di Genova nei molti disastri attraversati dal nostro Paese. La conosciamo poco, troppo spesso la politica l’ha liquidata come sovrastruttura parassitaria e anti-moderna, e tuttavia ecco qui: sono loro che salvano la faccia all’Italia quando non sa a che santo votarsi. La Chiesa, in particolare: da anni accusata di interferenze buoniste, bersagliata da mille titoli polemici sul “comunista Bergoglio”, poteva lavarsene le mani dei problemi di un governo che di certo non l’ha in simpatia. Al primo incontro del Pontefice con le nuove istituzioni italiane Matteo Salvini non era neppure andato e Luigi Di Maio si era presentato in chiusura, con l’incredibile giustificazione che doveva partecipare a Porta a Porta. Potevano restituire pan per focaccia, e invece è stato il Vaticano ad offrire la soluzione a una vicenda che stava diventando surreale. In un Paese spaccato politicamente a metà, dove nessuno fa un passo per tacitare i sentimenti di odio che dividono le parti, la resilienza di queste forze antiche emerge come un fenomeno interessante. Siamo abituati a considerarci una nazione dominata dal cinismo partigiano di chi calcola ogni suo atto in termini di resa mediatica e di consenso. Abbiamo mandato al rogo tutto – la politica, l’impresa, la magistratura, la cultura, il sindacato, la scuola – accusandolo di connivenza col nemico, cioè con quelli “dall’altra parte”, e nessuno si è salvato dallo tsunami della delegittimazione perché ogni corpo intermedio è stato raccontato come soggetto arruolato sotto una bandiera. E invece i senza-bandiera esistono, e nel momento della difficoltà scopriamo che esercitano un potere effettivo e rassicurante per quello che con espressione retorica si chiama “il bene del Paese”. Poi, qualcuno racconterà che la Chiesa ha avuto il suo tornaconto. Che la Guardia Costiera ha voluto solo farsi bella. Lo scetticismo dei tempi tende a escludere l’azione disinteressata e il lavoro ben fatto per convinzione e senso del dovere. Sono le opposte tifoserie, alle quali non va giù l’idea di un pezzo di Italia sopravvissuto alle lacerazioni e all’imperativo categorico di schierarsi, senza capire che solo l’esistenza di questo zoccolo duro sta garantendoci di tirare avanti, nonostante tutto”.


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