Quanto spazio esiste tra il vedere e l’essere, tra immagine e realtà?
Il cliché dell’immigrato è l’abito e, una parola chiama l’altra, l’abitudine.
Ma spesso si tratta di un vestito scaduto, di un abito che possiamo e dobbiamo smettere, per il bene della nostra terra.
Chi è lo straniero, che richiama in noi una conoscenza assunta passivamente, depositata nella nostra cultura, costruita su concetti divenuti ormai obsoleti, o ancora a causa di un’informazione superficiale in cui non abbiamo tempo o voglia di scavare?
Transitanze nasce così: come gioco dello smascheramento, alla ricerca della singolarità dietro l’immagine, dove ognuno è diverso e straniero all’altro. E, in questo, uguale e vicino ad ognuno. Alla forma abbiamo preferito il movimento, quel fluire di emozioni sotto pelle che accomuna tutti noi come un linguaggio universale.
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