Come spesso accade, il tempo degli anniversari è anche tempo di bilanci e, a poco più di due anni dall’apertura delle Accoglienze notturne in Casa della Carità ecco che ci chiediamo come sta andando questa esperienza di accoglienza. Vorrei condividere non un bilancio in termini di numeri ed efficacia del servizio, ma una riflessione sulla parola accoglienza e sul suo significato, che per la nostra equipe è uno stile da incarnare nella quotidianità delle relazioni che viviamo, a qualsiasi livello.
Accoglienza per noi significa da un lato incontrare e accompagnare chi è in difficoltà e dall’altro “farlo incontrare con la città”. E’ un’operazione a doppia mandata: da un lato rivolta alla persona in difficoltà, dall’altro alla comunità più ampia, non solo gli “addetti ai lavori” che operano nel sociale ma anche semplici cittadini che desiderano mettersi a servizio dei più fragili come volontari, disposti e capaci di accogliere nel proprio cuore le persone che incontrano in Casa della Carità e di dar loro voce, facendo sì che questi incontri tocchino le loro vite per certi aspetti più “fortunate”.
Parlare di accoglienza come incontro e accompagnamento di chi è in difficoltà significa parlare di centralità delle persone. Quando si accoglie si è sempre in due, chi accoglie e chi è accolto: ogni relazione è costituita da due persone che entrano l’una nell’orizzonte dell’altra. Una relazione è autentica quando l’altro può esprimersi dentro di noi e parlare attraverso di noi: se siamo particolarmente bravi, riusciamo a far sì che l’altro si senta “raccontato dalle nostre parole”.
La nostra formazione e l’esperienza quotidiana di operatori ci ricordano costantemente che la prima attenzione va data a noi stessi, a cosa ci succede finché stiamo con l’altro, a come l’altro entra e si fa presente a noi. Ogni incontro mette in moto qualcosa dentro di noi, nella nostra emotività: sono le emozioni che proviamo, qualsiasi esse siano, che ci fanno accorgere che l’altro c’è, esiste.
La lettura dei bisogni – miei e dell’altra persona – è il primo passo di una relazione adulta, doveroso soprattutto in una relazione di aiuto.
Non è agendo nel momento in cui vedo la necessità di un intervento, ma interiorizzando ciò che vedo, che posso avvicinarmi alla costruzione della risposta giusta. Lavorare con chi sta male fa spesso scattare in noi operatori e volontari la tentazione di “aggiustare”. Stare davanti a una persona fragile richiede molta sensibilità ma anche sufficiente preparazione affinché la persona non diventi solo un oggetto di cure e attenzioni. Nessuno dovrebbe sentirsi considerato solo per le sue fragilità e debolezze né essere visto come la somma dei suoi bisogni, come un sacco da riempire. L’Altro ha delle risorse nel suo sacco che rischiano di non venire più fuori se continuiamo a riempire di cose quel sacco. Anzi, paradossalmente l’Altro è un sacco da vuotare: il compito di noi operatori è fornire gli strumenti utili per ritrovarsi e continuare a crescere, mettendo in gioco le sue risorse, anche se poche e affaticate. Lasciare che l’Altro prenda il suo spazio e si esprima: questo è il primo aspetto di un’accoglienza che funziona.
Questo è anche il senso alla base dell’azione pedagogica di Caritas e dei servizi attivati nella Casa della Carità. La prospettiva di un servizio che risponda a un bisogno è sensata ma nasconde in sé il rischio di cronicizzare la persona se non si adotta contemporaneamente la prospettiva che vede nella persona aiutata un essere umano che ha sempre delle risorse proprie da far emergere e mantenere vive. Il servizio deve essere uno strumento di crescita e non di decrescita, di responsabilizzazione e non di cronica assistenza.
Noi operatori e volontari non dobbiamo pensarci più solidi di quanti vengono a chiedere aiuto. Noi siamo la parte forte della relazione non necessariamente perché siamo forti ma perché apparteniamo a delle associazioni che hanno risorse e strumenti. La nostra responsabilità è quella di scegliere quegli strumenti che più di altri sono capaci di essere d’aiuto davvero a chi ne ha bisogno.
Un secondo significato di accoglienza è quello che ci vede disposti a metterci in movimento perché l’altro ce lo chiede. Possiamo commuoverci infinte volte ma non necessariamente “muoverci”. Si accoglie quando l’altro ci fa muovere, ci spinge ad attuare un cambiamento. Se ci pensiamo bene, una relazione funziona davvero quando fa’ sì che due persone realizzino dei cambiamenti costruttivi ciascuna nel proprio ambito personale (non tanto nelle cose che condividono assieme). Questo è un altro aspetto di un’accoglienza che funziona: quando entrambe le parti si portano a casa la “convenienza”, gli spunti per vivere meglio, con più qualità. Noi operatori e volontari non dobbiamo aver per forza l’idea di cambiare la vita della gente ma dobbiamo avere la voglia e l’intenzione di incontrarsi. Il momento del ritorno a casa, a fine servizio, è tra i più importanti perché è il momento in cui decantiamo, ci lasciamo “contaminare”, elaboriamo e facciamo nostri gli stimoli generati dall’incontro con l’altro e che, una volta sedimentati, ci possono aiutare a vivere meglio, con più consapevolezza e intenzionalità il nostro lavoro, le relazioni e la nostra vita quotidiana. E’ in questa “decantazione” che avviene il passaggio dal cuore all’azione, il discernimento dei nostri bisogni da quelli dell’Altro e la comprensione di come aiutare l’altro a trovare quello che cerca.