Con le lacrime agli occhi ... - CARITAS TARVISINA

Con le lacrime agli occhi …

L’estate che stiamo vivendo ci pone ogni giorno davanti agli occhi scene drammatiche che colpiscono e feriscono a morte molte persone. Negli ultimi giorni gli scenari di violenze e violazioni si sono moltiplicati. L’impatto quotidiano con questo mondo di sofferenza è devastante e ci fa precipitare in un senso di impotenza che paralizza il cuore e spegne ogni parola. Dinanzi a questa ondata di male, non possiamo arrenderci, non possiamo chiuderci nell’indifferenza. Con le lacrime agli occhi e con il cuore rotto siamo chiamati anche noi a gridare con Papa Francesco “Fermate la guerra, fermate ogni forma di violenza ed ingiustizai”. Il primo grande passo che possiamo fare è quello di uscire dall’indifferenza, è di cogliere che la vicenda degli altri è anche la nostra. Siamo tutti collegati perché parte di una unica famiglia.

Ci stiamo avvicinando a celebrare come cristiani la solennità dell’Assunta. Chiediamo a Maria che ci aiuti ad avere il suo sguardo capace di penetrare dentro le cose, capace di compassione, capace di stare ai piedi della croce. In ogni angolo della terra oggi sono molti i crocifissi e spesso sono soli e abbandonati. Credo sia importanti che impariamo a custodirli con gli occhi di Maria, che non lasciamo che le loro sofferenze scorrano via come acqua sul vetro, ma che sappiamo alimentare la memoria del loro scarificio nella preghiera e nelle testimonianza coerente.

In questi giorni ho incrociato molti sguardi: gli occhi carichi di amarezza di chi è stato travolto dalla crisi economica; gli occhi spenti di alcuni senza fissa dimora che non hanno più la forza di chiedere nulla alla vita; gli occhi pieni di paura e di speranza dei profughi arrivati nelle nostre accoglienze; gli occhi straripanti di dolore e terrore, incrociati attraverso le immagini televisive, dei palestinesi a Gaza, degli iracheni a Karakosh, degli ucraini, dei siriani, dei libici , dei centrafricani…. e di tanti altri fratelli schiacciati dalla violenza; gli occhi impotenti e vuoti delle popolazioni africane colpite dall’ebola; gli occhi delle popolazioni dei balcani colpite in poco tempo, ancora una volta, da devstanti alluvioni. Gli occhi sono specchio dell’anima e del cuore. Dinanzi a questi sguardi, a questa dura verità non si può rimanete indifferenti, non ci si può girare dall’altra parte. È necessario starci dentro, è necessario lasciarsi ferire il cuore per sentire in profondità che tutto ciò è affare nostro e che possiamo, anxi dobbiamo fare qualcosa. Personalmente sono partito da cose molto semplici: dare spazio alle lacrime che gonfiavano i miei occhi, levare un grido di dolore attraverso la preghiera al Dio della vita, condurre altri presso quel santuario prezioso che è la vita di queste persone che soffrono e questo attraverso una informazione corretta e precisa di quello che sta avvenendo.

Sono convinto che se partissimo dal guardare al mondo con occhi limpidi e trasparenti, ci sarebbe una umanità diversa. La politica e l’economia sarebbero diverse, perchè veramente capaci di rispettare la dignità della vita e di promuovere relazioni di comunione e di pace. Si tratta dunque di partire da noi. Non è vero che oggi si sono persi i valori, purtroppo ci sono sempre meno persone che li sanno incarnare e rendere visibili. I valori sono scritti nel cuore dell’uomo, ciò di cui c’è bisogno oggi è che ci siano persone buone. Abbiamo bisogno di ritrovare la nostra verità, di percepire che siamo una sola famiglia umana. Concludo riportando alcune testimonianze dei drammi che in questi giorni stanno dilaniando la vita di tanti nostri fratelli. Invito ad ascoltarle con gli occhi per cogliere la vita che è trattenuta in ogni frammento di storia, anche in quelli più drammatici e dolorosi.

Iraq: “Saccheggiano, devastano, rubano nelle case, non risparmiano nemmeno le chiese” dice monsignor Yousif Thoma, arcivescovo caldeo di Kirkuk e Sulaymaniyah. “Tutti e 50.000 gli abitanti hanno dovuto abbandonare la città e stanno raggiungendo a piedi Erbil o Sulaymaniyah, i centri più vicini dove sperano di trovare aiuto”.  “A Erbil e Sulaymaniyah ma anche qui a Kirkuk, dice l’arcivescovo, accogliamo i profughi nelle nostre case e chiese, distribuendo cibo, acqua e tutto quello che serve, senza smettere di pregare per la pace”.

 Sierra Leone:“Se una persona adesso arrivasse a Pujehun, ancora vedrebbe una tranquillità apparente. La gente è in attesa. Tutti si guardano tra loro, in silenzio, e aspettano. Pujehun ha visto l’inizio dell’epidemia da un mese, quindi siamo nella fase in cui potrebbe scoppiare da un momento all’altro o potrebbe esaurirsi. Ma temo sia più probabile la prima ipotesi. Ci spinge un discorso affettivo, perché con il personale qui abbiamo un forte rapporto di collaborazione e amicizia che si è creato e solidificato nel tempo, per cui sappiamo che lasciarli qui da soli per loro sarebbe tremendo. Aleggia una depressione generalizzata indescrivibile. Se andiamo via anche noi, si sentono proprio abbandonati. Tutti noi abbiamo ben presente la nostra responsabilità. Stiamo cercando di prendere tutte le precauzioni possibili per noi e per loro. A Kenema sono morti 20 operatori sanitari che lavoravano nelle tende, dentro al centro. 20 sono tanti… Con loro è morto anche il dottor Khan, che era il direttore del centro, e per loro è stato un colpo di portata incommensurabile. Sabato siamo andati a Zumi, un piccolo centro rurale dove ci sono state 4 persone decedute sicuramente per ebola, ma essendo morte non sono stati effettuati i prelievi. Si aggiungono ai probabili casi quindi, ma sono quasi sicuri. Siamo andati lì per sensibilizzare la popolazione per cercare di evitare che la gente si nasconda. Hanno paura dell’arrivo delle autorità locali, temono di essere prelevati e di essere internati in centro di isolamento. Quindi siamo andati lì e abbiamo organizzato una riunione con la popolazione. Si percepivano il terrore, la paura, ma pian piano siamo riusciti a far capire loro l’importanza del controllo, che la popolazione deve controllarsi reciprocamente, per proteggersi. È stato molto difficile, la gente era timorosa ma cominciavano a capire l’importanza della tutela e di come salvarsi. Qui basta che entri qualcuno che è malato e il contagio è pressoché immediato”. C. F., 7 agosto 2014

 Gaza:anche stanotte, carissimi, faremo fatica ad addormentarci e non solo per il sottofondo di spari e ambulanze. Ogni sera sempre più palestinesi scendono in strada qui al check-point, per sfogare la loro rabbia dopo aver visto tutto il giorno in TV immagini sempre più raccapriccianti di bambini, donne e comunque civili, massacrati nella vicina Striscia di Gaza.

Come sai sono qui con una Delegazione di Pax Christi per portare anche la tua solidarietà e “scucire la bocca” a chi ci auguriamo non legga mai le cronache dei nostri giornali, piene di falsità e vuote delle più evidenti considerazioni non solo sulla immane tragedia umanitaria di migliaia di persone scacciate dalla loro casa, bombardate dal cielo, dalla terra e dal mare, ma anche sull’ipocrisia di un mondo indifferente che ripete solo ritornelli sul diritto di difesa di uno stato che da anni assedia e opprime, solo a Gaza, un milione e mezzo di persone. Ascoltiamo i testimoni degli attacchi e i racconti dei parroci che in vivavoce ci tengono aggiornati sui bombardamenti alla…parrocchia e sulla paura delle suore di Madre Teresa e dei 27 bambini con handicap costretti a scappare dal loro istituto e rifugiatisi in chiesa. Ma anche noi, che solo partecipiamo al loro pianto, scriviamo report e filmiamo interviste, anche noi ormai non abbiamo più lacrime, nè parole. Ci restano solo i nostri piedi per andare ancora a raggiungere qualche altro testimone e la forza per scuotere ancora coscienze intorpidite e ipocriti, reiterati equilibrismi.  Don Nandino Capovilla

 Eritrea: «I rashaida – spiega al telefono S., reporter etiope in esilio – si appostano fuori dal campo su auto senza targa per rapire i profughi. Chi sa o vede troppo sparisce, come Casco, eritreo che gestiva con la moglie a Shegarab un ristorante interno. Un suo amico, Rahwa aveva visto i rapitori caricare la gente su grossi pick up pieni di armi e alcuni nomadi gli avevano spifferato che le armi arrivano dall’Eritrea e dalla Libia e sono pagate dai beduini con i riscatti. Quando Casco ha parlato con la polizia sudanese, Rahwa, lui e la moglie sono stati arrestati con un amico ai primi di dicembre sotto il naso dell’Acnur e sono finiti nel Sinai. Per liberarli hanno chiesto un riscatto di 100 mila dollari».

Lo conferma Alganesh Fessaha, medico milanese di origine eritrea responsabile dell’ong Gandhi, che da anni libera i rapiti e i prigionieri sub-sahariani dalle galere egiziane, dove finisce chi viene liberato ma non riesce a varcare il confine sigillato con lo stato ebraico. Attualmente vi sono 500 prigionieri, tra cui donne e bambini. «Nel Sinai ci sono mille persone – racconta – detenute in condizioni inumane, con poco cibo e senza cure. Le donne vengono stuprate e alcune partoriscono in prigione. Per estorcere i riscatti, i rapitori telefonano ai parenti mentre le vittime vengono sprangate, frustate e bruciate con plastica fusa, benzina e acido». Orrori senza fine. Chi non può pagare viene usato come schiavo nei campi o nei cantieri, mentre alcune bande arrivano ad espiantare gli organi per rivenderli sul mercato nero del Cairo. Lo ha confermato a fine novembre in una drammatica diretta radiofonica alla Bbc Philemon Semere, 22 anni, eritreo rifugiato a Shegarab e rapito dai Rashaida. Il giovane ha lanciato un disperato appello per trovare 25 mila dollari, altrimenti i rapitori l’avrebbero ucciso per asportargli i reni e rivenderli. La famiglia non poteva pagare, è stato venduto a un altro gruppo ed è sparito.

La nostra storia: …..


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