Tra silenzi ipocriti e grida di dolore - CARITAS TARVISINA

Tra silenzi ipocriti e grida di dolore

donIrina è una donna ucraina sulla cinquantina. Da molti anni fa la spola tra il suo paese e l’Italia dove lavora come badante. Tanti sacrifici sostenuti dal grande desiderio di assicurare un futuro migliore alla sua famiglia, ai suoi figli.

L’ho incontrata l’altra sera. Abbiamo parlato della sua famiglia e della situazione di grande tensione che c’è in Ucraina. Ad un certo punto davanti ad un piatto di Boršč, una tipica zuppa ucraina a base di barbabietole, il suo sguardo si è come bloccato e perso in una miriade di pensieri nefasti, i suoi occhi si sono gonfiati di lacrime che rigando il suo volto scendevano a grande velocità e si inabissavano come macigni nella densa zuppa di colore rosso fuoco. Il pensiero, in un battibaleno, era volato in Ucraina, ai suoi familiari. Da giorno non riesce a contattarli, non ha più notizie. So solo che gli scontri si sono spinti vicino al suo villaggio. Ha paura, trema. Teme per il freddo che sta attanagliando la regione, ma soprattutto per quel gelo di indifferenza e di violenza che in maniera devastante si è posato su questa parte d’Europa che sembra dimenticata da tutti. Dinanzi all’ignoto Irina è scoppiata in un pianto lacerante e lacerato, accompagnato da grida di dolore per il terrore che gli affetti più cari siano inghiottiti dall’oscurità della morte. Il grido di Irina è il grido di tanti madri ucraine che vivono qui in mezzo a noi e che si sentono in colpa perché hanno la possibilità ogni giorno di stare al caldo e di poter avere un piatto di ministra, mentre dall’altra parte non si sa … dall’altra parte c’è solo freddo e un silenzio agghiacciante, rotto ritmicamente da colpi di mortaio … c’è aria di morte. Il grido di queste madri, come quello di tante altre mamme, sparse in ogni angolo della terra, non può rimanere inascoltato, deve trovare cittadinanza nel nostro cuore, nelle nostre scelte, nelle nostre responsabilità e nella nostra politica. Altrimenti continueremo a riempirci la bocca di bei discorsi sul valore della giustizia, della pace e della comunione, ma resteranno solo parole vuote che lasceranno ferite indelebili sulla freschezza dei sogni delle nuove generazioni. Questa grida vanno ascoltate e hanno il valore sacro della preghiera, perché sono a favore della vita, sono espressione di una missione: custodire ed amare la vita.

Se da una parte ci sono le grida strazianti di queste madri, dall’altra è bene che cerchiamo di comprendere cosa ci sta dietro a questa guerra volutamente dimenticata dall’Europa. L’escalation degli ultimi giorni nell’Est ucraino ormai ha fatto dimenticare la tregua stipulata nel settembre 2014 a Minsk, e i giorni di silenzio dei cannoni a dicembre sono già finiti, sostituiti da una pioggia di missili e decine di scontri. Paradossalmente però proprio nei giorni in cui è riesplosa la guerra anche la diplomazia ha compiuto insperati progressi.  I fatti degli ultimi giorni potrebbero anche avere come spiegazione il tentativo di consolidare ed espandere il controllo sui rispettivi territori prima della tregua. Il “premier” della Repubblica popolare di Donetsk Alexandr Zakharchenko ieri ha dichiarato che “il processo di secessione dall’Ucraina è irreversibile”. Ma Mosca, nonostante continui ad accusare Kiev di “mostruosi crimini di guerra”, ha non solo smesso di incitare i suoi seguaci di Donetsk e Luhansk a seguire l’esempio della Crimea, ma ha anche tolto dall’agenda la condizione di una federalizzazione dell’Ucraina sulla quale insisteva nei mesi scorsi. Già dalla visita di Putin a Milano nell’ottobre scorso la leadership russa ha cominciato a far capire di considerare il Donbass ancora territorio di Kiev. E se il piano di “scaricare il Donbass”, come dicono i nazionalisti russi, è veramente in corso, i suoi più accesi avversari sono da cercare proprio tra i leader delle “repubbliche popolari” e i comandanti della loro guerriglia.

Dietro al gioco diplomatico c’è l’economia. Mosca e Kiev sperano ciascuna nel collasso dell’altra, e potrebbero aver ragione entrambe. L’Ucraina è sull’orlo del default, con un’inflazione galoppante e una dipendenza vitale dai prestiti del Fmi che però deve guadagnarsi con riforme che distruggerebbero il welfare ancora sovietico. La Russia è in crisi, con il petrolio e il rublo che scendono vertiginosamente, le organizzazioni internazionali pronosticano una recessione del -5% nel 2015, le agenzie di rating che stanno per squalificare i suoi rating e un’inflazione che ha costretto il governo a indicizzare le pensioni per la seconda volta in pochi mesi. Non rischia il default, ma gli esperti prevedono una catena di bancarotte di società, indebitate con l’estero e schiacciate dal drastico aumento dei tassi al 17%. In altre parole, nessuno dei due Paesi può permettersi una guerra. A Kiev gira voce che i documenti per dichiarare guerra alla Russia, dopo la parziale chiamata alle armi dei giorni scorsi, sono già pronti: “Ma a cosa serve, se dichiariamo guerra non avremo più carri armati e in più il Fmi non ci darà più aiuti”, commenta un deputato. Mosca dal canto suo rischierebbe una nuova stretta di sanzioni occidentali, con un definitivo collasso dell’economia al quale si aggiungerebbe il rischio dello scontento politico. Il prezzo di una Crimea-bis è insostenibile, e il Cremlino appare semmai intenzionato di restituire le zone ribelli a Kiev come spina nel fianco politica e palla al piede economica.

In ogni angolo della terra nei palazzi del potere si continuano a disegnare, in segreto ed in silenzio, strategie economiche e geo politiche per saziare la propria sete di dominio, mentre nelle case dove abita il popolo si levano grida di dolore e di sofferenza per vita ferite e spezzate …. Ascoltare queste urla di dolore e trasformare le logiche di palazzo in scelte di servizio al bene comune è l’unica via per onorare la vita dell’uomo. Grazie Irina perché le tue lacrime e le tue grida hanno riacceso in me il desiderio di lottare per un mondo nuovo.


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